giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La graticola mediatica senza fine di chi aspetta di sapere se sarà arrestato

Nella riforma voluta da Nordio che ha introdotto l’interrogatorio preventivo c’è un buco. Non viene indicato un termine entro cui il giudice deve decidere se appallottolare la richiesta di misura cautelare firmata dalla Procura o accoglierla del tutto o in parte.

Per i ‘candidati’ all’arresto coinvolti in inchieste che interessino l’opinione pubblica viene in sostanza acceso un fuoco mediatico sul quale stanno ad arrostire per giorni (o anche mesi), come sta accadendo per l’ex assessore comunale Giancarlo Tancredi,  l’imprenditore Manfredi Catella e gli altri quattro sui quali dovrà pronunciarsi il giudice nell’ambito dell’inchiesta sul presunto sistema di corruzione che avrebbe dominato l’urbanistica milanese. L’effetto viene amplificato perché, nel frattempo, circola in purezza sui media l’atto dell’accusa non mediato da un giudice, talora ridondante di quelle espressioni, diciamo, ‘vivaci’ che utilizzano i pubblici ministeri nell’afflato investigativo. Senza contare allegati e dettagli che il giudice prima ometteva di svelare nell’ordinanza e ora  invece vengono messi a disposizioni delle parti e, quindi, che piaccia o meno, hanno buone possibilità di diventare pubblici.

Poi, certo, va riconosciuto che la novità legislativa permette a chi sta sta con mezzo patibolo sul collo di provare a sfilarsi indebolendo le esigenze cautelari dimettendosi o attraverso memorie e dichiarazioni nel faccia a faccia  col gip.

Sappiamo bene però che, nell’eccitazione mediatica, fa molto più rumore un pm che accusa che cento avvocati che difendono i loro assistiti. E, anche se poi la misura cautelare dovesse essere respinta dal giudice, sulla graticola resterebbero pochi, bruciacchiati brandelli di reputazione. Per questo mettere un tempo massimo a questa attesa costituirebbe un atto di civiltà.

(manuela d’alessandro)

E’ arrivata la ‘Crime Prevention Week’, ci credete?

Come ci si veste alla ‘Crime Prevention Week?’. Si beve e si mangia?

La Polizia di Stato lancia un’”operazione di controllo straordinario finalizzata alla prevenzione dei reati in ambito ferroviario” che arriva subito dopo la chiusura della ‘week’ più affollata e internazionale, quella del fuori salone del mobile. Ora, qui il tema non sono naturalmente i controlli che rientrano nelle normali attività delle forze di polizia quanto l’utilizzo di una formula che evoca le ormai decine di week cittadine (libri, piano, moda, musei, arte, food, pet, beauty, montagna, greeen) accomunando attività di svago ad ambiti istituzionali e che va nella direzione, come osserva la presidente uscente della Camera Penale di Milano, l’avvocata Valentina Alberta, della “narrazione di Gotham City”.

Il 9 aprile il questore di Milano, Bruno Megale, già investigatore sul campo di grande valore, ha dichiarato che nell’ultimo anno i “reati sono in importante diminuzione fatta eccezione per le rapine in esercizi pubblici” e le statistiche dicono che nell’ultimo decennio i crimini sono in calo (-21mila).

Spiega ancora Megale:“C’è stata una grande attenzione per i reati di strada che maggiormente creano allarme e la priorità è dare risposte a questo tipo di fenomeno. Ci sono altri reati più gravi ma che non sono avvertiti in modo così allarmante”.

Dunque, il tema è quello della percezione più che della statistica. Ecco quindi che viene diffusa la notizia che, durante la ‘Crime Prevention Week”, sono state  arrestate o denunciate alcune persone per spaccio e furto di uno zaino e di un telefonino in zona stazione Centrale.

Normalissime attività che le forze di polizia eseguono ogni giorno, non certo  solo durante la ‘Crime Prevention Week”, definizione che, a questo punto, mortifica anche il quotidiano impegno degli agenti facendolo passare per eccezionale. (manuela d’alessandro)

Cosa il cronista giudiziario può pubblicare ora, cosa non non può ma fa e cosa non potrà

 

Proviamo a fare chiarezza per chi non bazzica i tribunali: quali atti giudiziari potrebbero pubblicare ora i cronisti, quali effettivamente pubblicano e quali potranno pubblicare secondo la stretta voluta dal governo nel decreto?

Una certezza: dal 2017 possono inserire nei loro pezzi i virgolettati delle ordinanze di custodia cautelare e i provvedimenti di sequestro perché è previsto dalla legge voluta dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

Un’altra sicurezza, che in pochi ricordano sebbene sia materia dell’esame per diventare giornalisti professionisti, è che non si potrebbero pubblicare, nemmeno sotto forma di sintesi, gli altri atti che costituiscono la ‘trama’ di un’inchiesta e cioé i decreti di perquisizione, le richieste di misura cautelare, le informative, gli avvisi di garanzia, gli atti di chiusura delle indagini.

Chi lo dice? Il codice penale agli articoli 114 e  684. Il primo recita: “E’ vietata la pubblicazione degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Cioé fino a quando ci si avvia al processo.

Il secondo individua il reato legato al divieto, quello di ‘Pubblicazione arbitraria di atti’. “Chiunque pubblica – in tutto o in parte – anche per riassunto, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammendo da 51 euro a 258 euro”.

Eppure, nelle cronache quotidiane capita molto spesso di vedere trascritte parti, anche sostanziose, di questi atti.

Come mai? Perché si è sviluppata una ‘silenziosa’ tolleranza della violazione di questo articolo tenendo presente che spesso sono documenti già noti alle parti e perché l’entità delle multe è così risibile che ha scarso effetto deterrente e non vale nemmeno lo sforzo per chi si ritenga danneggiato imbarcarsi in un procedimento per quattro spicci.

E veniamo al domani, il possibile domani se si completerà il ‘viaggio’ del decreto. Succede che gli atti già conosciuti alle parti potranno finire tranquillamente nelle mani dei giornalisti che però potranno pubblicarli solo attraverso parafrasi, sintesi o comunque la si desideri definire.

Per esempio. A Milano è stato appena firmato un protocollo tra Presidenza del Tribunale, Procura, rappresentanti degli avvocati e dei giornalisti che prevede la possibilità di avere in tempi rapidi le ordinanze di custodia cautelare e farne cio’ che si vuole, sempre seguendo i canoni deontologici e il rispetto della presunzione d’innocenza. Ovviamente la nuova legge imporrebbe solo un più o meno efficace e veritiero ‘racconto’ dell’ordinanza per i novelli ‘Omero’ delle cronache giudiziarie.

Naturalmente, se la logica ci supporta, finirebbe anche l’invio da parte delle forze dell’ordine, con l’ok delle procura, di video pedinamenti, audio o trascrizioni di intercettazioni che le parti ignorano.

C’è un però: al momento non sono previste sanzioni per le violazioni e lo spirito del decreto sembra più  che altro sostenuto da una logica del ‘Ve lo diciamo noi cosa pubblicare’. Naturalmente, e confessiamo che è un pensiero molto malizioso, il tutto dovrebbe valere sia per il Messina Denaro arrestato, sia per l’’ndranghetista, sia per lo spacciatore, sia per il femminicida e sia per il politico. Naturalmente.

Perché è impossibile trovare un’etica nei casi di cronaca (compresa la storia di Giulia)

Che dovessimo studiare semiotica, teorie della comunicazione di massa, analisi dei media per fare i giornalisti ci sembrava in certi lunghi pomeriggi passati in via Sant’Agnese, a Milano, un po’ una perdita di tempo. Volevamo stare in redazione, scendere nell’aula del seminterrato e parlare di pezzi, interviste, foto, realtà. Poi c’era un professore che veniva dal centro San Fedele, padre Luigi Bini, un gesuita svizzero che a volte ci sembrava un marziano con le sue lezioni di etica della comunicazione.

Passati circa venticinque anni mi viene spesso da pensare a quei colleghi della scuola di giornalismo dell’Università Cattolica, se anche a loro, guardando i Tg, leggendo i giornali, scrivendo articoli o commissionando pezzi, capiti di ritrovare qualcosa di già detto e previsto dalle analisi e le dinamiche che studiavamo in quegli anni. A me capita. Quando vedo le notizie da prima pagina, e scelgo la parola vedere apposta, mi prefiguro già la puntata successiva, come una serie di una piattaforma con tutti i passaggi e le variabili. Così prevedibili sono la realtà e l’umana natura? La risposta è no.

Visto il luogo in cui uscirà questa sequenza di frasi, in uno spazio digitale, stilisticamente addomesticato alla brevità e alla perentorietà anche, non posso permettermi troppe divagazioni e andrò subito al punto.

Perché quando vediamo i protagonisti di questi fatti da prima pagina ci aspettiamo invece qualcosa di nuovo, sorprendente e definitivo che porti a una svolta, un insegnamento, un’esemplarità? 

E’ per quella cosa che dice il Censis, cioè il sonnambulismo dell’ipertrofia emotiva? Cioè l’essere sollecitati talmente tanto da un diluvio di emozioni, dolore, rabbia, indignazione, da non sentire più niente e allo stesso tempo rimanere sempre nell’attesa di un risveglio? Che qualcosa finalmente accada e ci spieghi cosa è successo prima o cosa ci siamo persi?

Si. Questo «sì» vale però come effetto, non come causa. Prima c’è un altro meccanismo che agisce, il diventare appena si entra nel setting della notizia, sia come lettore e attore, un altro essere, finzionale, un personaggio della stessa rappresentazione mediatica.

Entri persona reale con il tuo vissuto, il tuo passato, esci mutato e mutante, a seconda dell’inclinazione che riesci a prendere sotto il peso inerziale dell’immaginario mediatico.

Diventi una persona simbolica, una maschera, come il personaggio della relazione sociale pensato  a Chicago da Goffman che faceva partire questo meccanismo molto prima, dalla vita quotidiana stessa. Figuriamoci per chi ascende agli onori o discende nei disonori della cronaca. Se si guarda bene è già un ruolo. Il padre, la madre, il giudice, il medico, la vittima, il soccorritore, il corrotto, il freak, il protagonista, l’aiutante, l’antagonista e la principessa. Uso queste ultime quattro figure per mostrare a cosa sto pensando, a Propp e alla sua morfologia della fiaba. C’è una morfologia della notizia che non sfugge a una simile forma, non c’è niente da fare, è l’inerzia dell’immaginario, una sorta di peso gravitazionale del nostro accadere, un recinto che ci chiude ma che ci protegge anche da realtà non classificabili che possono sempre accadere, evocate come un ignoto temibile dietro l’angolo.

Una volta reificato, il personaggio-maschera può parlare alla massa uniformata del mondo delle correnti social che acchiappano visualizzazioni, A questo punto tutto quello che si intravvedeva di personale e unico si traduce in un linguaggio base, da paniere Istat del parlato italiano. Le parole diventano hashtag perché solo così funzionano, aggregate a flussi tematici. I discorsi ampi e articolati si frantumano in pochi secondi di reel, ripetuti senza dover cliccare la funzione restart, basta poi un gesto di un pollice per passare a un altro flusso.

Entri subito, se non fosse per quella cosa che giudichiamo noiosa dei cookies, nella macchina economica di questo sistema, fino a determinare in una scala dimensionale le pubblicità che valgono di più se porti la pagina a moltiplicare le visualizzazioni, le home page più cliccate, fino ad alimentare le aspettative dell’audience tv e richiamare gli ingaggi delle società di produzione, gli uffici di comunicazione che dettano le scalette.

Tutto questo apparato non si vede, riesce a non disturbare la trasparenza del media. Non fa vedere l’artefatto, sembra tutto vero e autorevole come quella frase che si diceva nel periodo dell’Archeotv «l’ha detto la televisione» o ai tempi della radio, l’antenata di tutto questo sistema come ci spiegava il professore Giorgio Simonelli con il suo piglio gentile ad equilibrare qualche conclusione apocalittica.

E al famoso lettore, cioè a chi digita, legge, guarda, allettato da una grande notizia, dove la realtà da mostrare sembrava tanta e vivida con tante cose da svelare, con protagonisti ricchi di valori e/ o disvalori, dove si assicura una mobilitazione di pensieri tali da richiamare la spiegazione importante del pensatore onnisciente che deve però parlare poco, giusto per abbozzare un senso,  al famoso lettore, dicevamo, ora non sembra abbastanza.

Manca l’insegnamento, un’etica definitiva, un ecco adesso ci siamo, ricordiamocelo, fissiamolo per sempre come un mai più del nostro comportamento. Mai più tragedie, mai più guerre, mai più incidenti, mai più. Seguono la delusione e poi l’accusa. La storia non regge la missione iniziale, c’è qualcosa della materia bruta che non riesce ad entrare nel making of e annulla le aspettative. C’è disorientamento, come l’effetto di un neon sparato negli occhi, che cancella le sfumature, i rilievi, le profondità. Sempre nella nostra scuola della Cattolica, Alberto Negri, professore di Semiotica del testo audiovisivo, parlava proprio di neon-tv per descrivere l’abbaglio che sembra mostrare le cose in modo più vivido ma in realtà le cancella per sovraesposizione.

E che facciamo?  Qualcuno comincia a ribellarsi e a parlare dell’assenza di un contesto comune di valori che ci possa tutelare da questi abbagli e dalle false speranze, «ai miei tempi», «eccetera eccetera», fino a pensare che è meglio starsene rintanati nelle nostre piccole comunità, aver voglia di spegnere tutto come soluzione (tentazione a cui in realtà io cedo volentieri, ndr). Anche questo un già visto e previsto. Uscire da questa che i massmediologi chiamano infosfera non è però possibile. Cercare di prenderne le distanze si, almeno per vedere come funziona (riprendere in mano gli appunti di Padre Bini, nel mio caso) o provare a vederci da fuori, come faceva Lorenz con le oche.

Un’etologia prima dell’etica, e sarebbe già tanto.

Giusi Di Lauro

Differenze di trattamento del caso di Roma Termini e del figlio di Salvini

 

Tema numero uno. Un uomo probabilmente affetto da disagio psichico, senzatetto, vagabondo, straniero, qualche precedente di polizia, accoltella una turista a Roma. Due bravi carabinieri fuori servizio lo individuano a catturano, in stazione Centrale a Milano, martedì 3 gennaio.

Fermo di polizia giudiziaria. La mattina dopo, mercoledì 4 gennaio, il pm di turno chiede la convalida del fermo e attorno a mezzogiorno la invia al gip. Il giudice fissa l’interrogatorio per le 3 di pomeriggio dello stesso giorno. Alle 18.00 le agenzie scrivono che il fermo è convalidato, alle 18.30 aggiungono i primi dettagli sul provvedimento. Sono passate esattamente 24 ore dal fermo.

Intanto per tutta la mattina e il pomeriggio molti giornalisti attendono di poter intervistare i due carabinieri. Loro sono disponibili, il comando pure, ma ci vuole l’autorizzazione della Procuratore capo, da cui dipende praticamente ogni comunicazione giudiziaria, in seguito alla riforma Cartabia. Ma se non c’è neanche un comunicato sul fermo, figuriamoci se sono autorizzate le interviste.

La nota arriva alle 16.45, autorizzata dalla Procura di Roma. Comunica che l’uomo è stato arrestato – cosa che tutti sanno dalla sera prima – aggiungendo pochissimi dettagli. I giornalisti vengono fatti entrare in caserma all’istante, per intervistare i due militari.

Tema numero due. Il figlio di un ministro viene rapinato per strada da due giovani nordafricani. E’ il 23 dicembre, due giorni prima di Natale. Non è un caso difficile da risolvere, e la parte offesa, accompagnata dal padre in Questura, dà pronta e utile collaborazione. Il 5 gennaio i due rapinatori vengono arrestati, con misura di custodia cautelare firmata dal gip, su richiesta del pm. Sono passati 13 giorni dal fatto. Alle 17.25 del 5 gennaio l’arresto viene comunicato con una tempestiva nota ufficiale.

Dica il candidato (avvocato, giornalista):

- Quante volte ha assistito in vita sua a tempstiche così rapide tra un fermo di pg e la sua convalida.

- Quanto spesso tra la consumazione di un reato e l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare passano meno di 15 giorni.

Determini il candidato (avvocato, giornalista)

- Il livello di disfunzionalità e di ipocrisia istituzionale del sistema di comunicazione affidato ai soli comunicati dei Procuratori della Repubblica. (nino di rupo)