giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Ferrara in aula scatenato contro Di Matteo: “La sua inchiesta ha deformato il cammino della giustizia”

E’ un Giuliano Ferrara “sulfureo” (definizione sua), vecchio animale da talk show liberato in un’aula di Tribunale, quello che si difende dall’accusa di diffamazione  per avere definito, tra le altre cose, una “spaventosa messa in scena predisposta e avviata per perseguire finalità politiche” l’indagine Stato – Mafia condotta dal pm di Palermo Antonino Di Matteo.

“I processi contro i giornalisti si fanno nella Turchia di Erdogan, non in Italia dove si risponde solo per l’ articolo contestato “. Col tocco duro da padrone del salotto, zittisce così il legale di Di Matteo,  l’avvocato Roberta Pezzano, mentre prova a mettere in fila tutti i corsivi malvagi scritti in passato dal fondatore del ‘Foglio’ contro il suo assistito.  Ma la sensazione è che qui davvero si celebri un processo all’inchiesta palermitana con Ferara che divide le squadre in campo: “Da una parte ci sono gli italiani che dicono che un potere segreto dello Stato ha alimentato il rapporto con la mafia, dall’altra chi pensa, come me, che fosse in atto una campagna politica  e civile attraverso Ingroia e Di Matteo e delle piattaforme di ridondanza che deformava il cammino della giustizia”. Ce l’ha in particolare con le intercettazioni carpite nel carcere di Opera tra Totò Riina e Alberto Lo Russo, presunto affiliato alla Sacra Corona a un certo punto affiancato al boss in regime di 41 bis e sospettato da Ferarra di appartenere ai servizi: “Alcune dichiarazioni erano sicuramente reali quando Riina dice di voler uccidere un magistrato, altre erano una messa in scena, come quelle che riguardano Napolitano , prive di qualunque elemento probatorio, ma entravano nella campagna alimentata non tanto da Di Matteo, quanto da alcuni ambienti politici”.  E ancora: “Quando si mettono in mezzo Napolitano, il generale Mori e De Gennaro, il braccio armato di Falcone, c’è qualcosa che non va nell’amministrazione della giustizia. Se per assatanati in toga si intendono i magistrati che fiancheggiano partito o movimenti politici allora sì, Di Matteo lo è “. Ma, per l”elefantino’ (firma della casa sul ‘Foglio’), “non c’è ombra di diffamazione. Penso che a Di Matteo abbia dato fastidio il linguaggio incontinente che ho usato e l’interpretazione che ho dato, che ci fosse  un pregiudizio sfavorevole del suo lavoro di magistrato e del suo prolungamento politico, la sua vocazione civile, per non dire etica, a fare di questo processo il processo della sua vita e della sua carriera di magistrato”.

(manuela d’alessandro)

35 anni dopo, fu vera gloria la legge sui pentiti?

Il 29 maggio 1982, durante quella che venne definita “emergenza terrorismo” veniva approvata in Italia la Legge n. 304 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 2 giugno) dal titolo “Misure a difesa dell’ordine costituzionale”. La cosiddetta “legge sui pentiti” introduce all’art. 3 notevoli sconti di pena per chi “rende piena confessione di tutti i reati commessi e aiuta l’ autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di prove decisive per la individuazione o la cattura di uno o più autori di reati commessi ovvero fornisce comunque elementi di prova rilevanti per la esatta ricostruzione del fatto e la scoperta degli autori di esso.”

In tal caso” si legge “la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dieci a dodici anni e le altre pene sono diminuite della metà, ma non possono superare, in ogni caso, i dieci anni”. Al secondo comma del medesimo art. 3 si legge che quelle pene già ridotte sono ulteriormente diminuite fino ad un terzo “quando i comportamenti previsti dal comma precedente sono di eccezionale rilevanza” e in tal caso è prevista, si legge al successivo art. 6, “la libertà provvisoria con la sentenza di primo grado o anche successivamente quando, tenuto conto della personalità, anche desunta dalle modalità della condotta, nonché dal comportamento processuale, il giudice possa fondatamente ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere reati che pongano in pericolo le esigenze di tutela della collettività.”.

All’inizio la Legge verrà aspramente criticata da molti cultori del diritto e alcuni giudici milanesi scriveranno, in una Sentenza del 1983, che “spoglia il magistrato della sua dote più sacra, l’imparzialità assoluta nei confronti di chiunque e comunque delinqua» (cfr. Sentenza 20/83, pag. 99).

Tra i casi che destano più “scalpore” nell’opinione pubblica quello dell’ex BR Patrizio Peci, che a fronte di 7 omicidi confessati (più numerosi ferimenti) uscirà dal carcere dopo soli 3 anni e mezzo in regime di protezione, quello del milanese Marco Barbone, scarcerato dopo poco più di 2 anni dal suo arresto al termine del processo di primo grado per l’ omicidio di Walter Tobagi, e quello dell’ex piellino Michele Viscardi, tra i responsabili dell’omicidio del giudice Guido Galli, che sconterà una pena inferiore a quella del settantenne ex partigiano bolognese Torquato Bignami denunciato dal Viscardi per avere prestato al figlio Maurice (anch’egli di Prima Linea) un appartamento a Sorrento, dove fu ricoverato il Viscardi stesso perché ferito in un conflitto a fuoco dopo una rapina a Ponte di Cetti (Viterbo), in cui erano rimasti uccisi i carabinieri Pietro Cuzzoli e Ippolito Cortellessa. Continua a leggere

Elogio a Fabio, da 18 anni custode gentile dei segreti della Procura

Un po’ come Lucy, l’amichetta di Charlie Brown pronta ad accogliere tutti al suo banchetto ‘Psychiatric help’ per la spropositata parcella di 5 cents. Ma con due differenze: lui ti ascolta davvero e lo fa gratis, con un sorriso aggiunto.

Magistrati, giornalisti, umanità del Palazzo, personaggi strampalati, uno per tutti il mitico professor ‘Mezzacapa’ che una volta alla settimana per anni si presentava nel suo ufficio per fare il punto col procuratore Corrado Carnevali sull’amore non corrisposto per una nota cantante.

Oggi tutti festeggiano il custode dell’anticamera del potere, l’appuntato dei carabinieri Fabio Vicari, mentre riceve a furor di popolo “per il suo lodevole e costante impegno” un elogio speciale dal suo Comandante Giuseppe La Gala.

“Ogni giorno sono motivato a ricevere qualcuno per qualche problema e ricevo anche chi non ce li ha”,  scherza (come sempre) Fabio, da 18 anni alla segreteria dei capi della Procura, da Borrelli a D’Ambrosio, da Minale a Bruti Liberati, fino a Greco.

“Nonostante non abbia svolto la sua attività in strada  ha mostrato quella voglia di essere utile nei confronti dei cittadini, aiutando i magistrati a risolvere i problemi della gente”, è l’omaggio di La Gala il quale però, non vivendo qua dentro, lo conosce solo un po’. Perché Fabio aiuta tutti, chiunque abbia bisogno di un’informazione, un consiglio su come riparare il pc (è un portento dell’informatica e ha un drone, oltre che una bellissima moglie, collega di Tribunale) o di una carezza in una giornata nera. E nonostante il potere lo annusi tutti i giorni nella solenne anticamera del capo di turno, il miracolo è che Fabio non se n’è mai lasciato sedurre, conservando lo sguardo dei puri sul mondo.  (manuela d’alessandro)

Perché la separazione delle carriere non è il rimedio al male

 

E’ di questi giorni la raccolta firme a sostegno dell’iniziativa popolare per la separazione delle carriere della magistratura promossa da UCPI (Unione Camere Penali Italiane) e annunciata nella Gazzetta Ufficiale, serie generale n. 93 del 21 aprile 2017.

Il nucleo centrale risiede nella sostituzione dell’attuale primo comma dell’art. 106 della Costituzione che dovrebbe, nell’intenzione dei proponenti, diventare il seguente: “le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”.

Le ragioni a sostegno dell’iniziativa (che potremmo dire quasi “rivoluzionaria” nel nostro paese) sono plurime, e per la gran parte già note, posto che trattasi di problematica di cui si discute ampiamente da anni e da più parti, ma sostanzialmente si condensano nella volontà di meglio garantire la necessaria “terzietà” del giudicante rispetto ad una delle due parti in contesa, in coerenza con quel “modello accusatorio” che fu il principio ispiratore del codice di rito del 1989.

“Giocheresti una partita arbitrata dal fratello del tuo avversario?” si legge sul sito web del comitato promotore (separazionecarriere.it.) per evidenziare, con efficace slogan, quello che viene ritenuto essere il vizio capitale dell’attuale ordinamento giudiziario: il comune concorso di provenienza.

Da un lato perché chi proviene da una stessa selezione non potrebbe in futuro conservare giusta equidistanza da chi verrebbe comunque visto come un ex “compagno di scuola” e dall’altro perché quella comune legittimazione concorsuale consente successivi passaggi di funzione ulteriormente rafforzanti lo spirito di “colleganza” tra giudicanti e requirenti.

Ne deriva che eliminando quel vizio originario il giudizio penale riacquisterebbe, secondo i promotori, la sua giusta natura di leale confronto tra due parti in perfetta par condicio di fronte al Giudice.

Le motivazioni sono certamente più che lodevoli, ma personalmente non ritengo efficace il rimedio proposto, e non tanto per ragioni “culturali” o “politiche”, ma per un motivo ben più pratico, che cercherò di spiegare.

Se il punto dolens, e su questo siamo ovviamente tutti d’accordo che lo sia, è che a noi difensori capiti talvolta di incappare in giudici palesemente sbilanciati verso la pubblica accusa, la ragione dipende esclusivamente dalla persona di quel giudice che ha evidentemente sbagliato mestiere.

Chi sceglie di esercitare una funzione così delicata, che incide direttamente sulla vita delle persone, deve infatti avere molto chiaro che il suo lavoro consisterà unicamente nel valutare in assoluta oggettività lo spessore delle prove raccolte dalle parti in contesa, e senza il benché minimo condizionamento aliunde, qualunque esso sia.

Un giudice che invece pronuncia una sentenza “in nome del popolo italiano” (evidentemente formato anche da soggetti diversi dai suoi “compagnucci di concorso”) tenendo anche conto della diversità d’ufficio di una delle due parti, è un pessimo magistrato per tara genetica e resterà un pessimo giudice vita natural durante.

Chi nasce pessimo giudice non migliora in forza di legge, né l’imparzialità di giudizio può essere garantita a colpi di commi.

Nella mia professione ho incontrato, come tutti, pessimi giudici e ottimi PM, e come non ho mai pensato che un pessimo PM potesse trasformarsi in futuro in ottimo giudice, altrettanto vale per quei pessimi giudici che non sarà certo un diverso concorso a trasformarl in bravi magistrati.

So bene che mi si obietterà che la riforma di un sistema prescinde dalle singole individualità, e che in ogni caso “il meglio è nemico del bene”, ma proprio perché il tema della terzietà del giudice è fondamentale, temo le soluzioni foglia di fico un po’ ipocrita.

“Avete voluto la separazione delle carriere ? Allora non lamentatevi più” e i pessimi giudici e le pessime sentenze avranno pure l’avallo di una imparzialità per…legge.

avvocato Davide Steccanella

Per la prima volta un detenuto Isis reclama i suoi diritti a un processo

 

“Non mi hanno nemmeno avvisato della videoconferenza. Giudice, secondo lei è possibile che ci tolgano anche il diritto di prepararci?“.  Non è una novità che i detenuti reclamino (giustamente) i propri diritti in aula. Ma è la prima volta che a farlo di fronte a una corte italiana è un presunto appartenente all’Isis, oggi condannato in appello a 6 anni perché avrebbe avuto in animo, tra le altre cose, di far saltare la base militare di Ghedi, nel bresciano.

Muhammad Waqas, pakistano di 28 anni, è uno preparato.  Come ha ricordato il suo avvocato, “ha vissuto sin dalla sua fanciullezza a Brescia, si è diplomato in ragioneria con ottimi voti e poi si è dedicato a un lavoro onesto come contabile in una ditta di trasporti”. Uno che nelle dichiarazioni spontanee ha sfoggiato  un ottimo italiano con riferimenti precisi agli articoli del codice e consapevolezza dei suoi diritti.  “Avevo chiesto anche le motivazioni della sentenza di primo grado, ma non mi sono arrivate. Non so nemmeno perché mi hanno condannato.  Estradatemi in Pakistan – ha poi concluso il suo intervento in cui si è dichiarato estraneo all’Isis – e quando la sentenza diventera’ definitiva semmai chiedete l’estradizione al mio Paese”. Più volte Waqas e il suo legale, Luca Crotti, si sono sentiti al telefono per concordare la strategia difensiva. Tra i punti più contestati dagli avvocati della riforma Orlando, c’è quello che prevede l’ampliamento della discrezionalità dei giudici nel disporre la videoconferenza. Che anche in casi come quelli di presunti terroristi appare una severa violazione dei diritti della difesa.

(manuela d’alessandro)