giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Sette udienze e 5 giudici cambiati, l’odissea di un operaio paralizzato

Sette udienze,  cinque giudici cambiati, un solo testimone sentito. Quello in corso davanti al Tribunale di Lodi dall’aprile del 2016 per un grave infortunio sul lavoro è un processo che racconta molto della lentezza della giustizia italiana.

I fatti risalgono al 5 maggio del 2014 quando A.C, all’epoca 41enne, titolare di una società che aveva ricevuto in subappalto i lavori per la ristrutturazione di un’abitazione a Melzo (vicino a Milano), scivola da un parapetto e si procura una lesione vertebrale che lo fa finire su una sedia a rotelle, senza possibilità di recupero.
La Procura di Lodi apre e chiude in soli sei mesi l’indagine a carico del rappresentante legale della ditta che ha dato i lavori in subappalto ad A.C., accusandolo di lesioni aggravate. E’ con l’inizio del processo che l’iter giudiziario si arena. Il pm emette una citazione diretta a giudizio (si salta, quindi, l’udienza preliminare) nel maggio del 2015, fissando la data d’inizio del processo nell’aprile del 2016, quasi un anno dopo.

La prima udienza viene subito rinviata al novembre del 2016 per un errore di notifica commesso dagli uffici giudiziari. Si riparte nel febbraio del 2017 con  fulmineo aggiornamento  a maggio per il cambio del giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede. Finalmente, nel dicembre del 2017 si arriva alla costituzione delle parti, atto che certifica di fatto l’inizio del processo, ma nulla più. Tutto rimandato quindi all‘ottobre del 2018 per l’esame dei testimoni che però non si riesce a svolgere perché muta ancora il giudice. Di nuovo in aula l’8 marzo del 2019 quando dovrebbero essere sentiti tre testimoni, ma, dopo avere ascoltato uno di loro, i buoni propositi del giudice svaniscono perché incombono, stipati  in fondo all’aula, una trentina di testimoni che attendono di essere sentiti nel procedimento fissato subito dopo. Si decide di dare a loro  la priorità e tutti convocati di nuovo, compresi i due testi non sentiti, al 27 novembre del 2019.  A.C., il lavoratore di origine albanese, aveva scelto, stando a quanto riferito dal suo legale, di provare a farsi risarcire nell’ambito di un giudizio penale e non civile pensando  che fosse la maniera più  veloce per ottenere il denaro. Quasi tutti i rinvii sono stati determinati dal cambio di giudice. Nei tribunali ‘piccoli’ accade spesso che i magistrati siano di passaggio, circostanza che non aiuta alla “ragionevole durata” del processo, diritto sancito dalla costituzione. (manuela d’alessandro)

La crisi dell’avvocato gratis, sempre di più i ‘no’ dei giudici

Se non muori di fame, pur dichiarando di essere nullatenente, non hai diritto all’avvocato gratis.  E’ questa la tendenza che si sta affermando in tribunale a Milano come ha denunciato per primo l’avvocato Corrado Limentani in un post su Facebook che ha raccolto tantissime adesioni da parte di altri rappresentanti del foro meneghino. Un tempo, racconta il legale, tra i massimi esperti sul tema a cui ha dedicato anche dei corsi di formazione, “il giudice chiedeva all’imputato che si dichiarava povero di portargli vicini di casa e amici che testimoniassero la sua effettiva indigenza per valutare se avesse diritto all’avvocato gratis”.

Verrebbe da sorridere pensando all’apparente criterio granitico previsto dalla legge attuale in base alla quale può approfittare di questo istituto di grande civiltà, nato per garantire a tutti la possibilità di difendersi, chi dichiari un reddito inferiore a 11mila euro.  Invece le cose sono molto più complicate nella realtà. 

Si moltiplicano le decisioni dei giudici che negano il beneficio anche per chi ha un reddito zero o inferiore alla soglia prevista dalla legge   con la motivazione che, vista l’oggettiva impossibilità di sopravvivenza da parte del richiedente e del proprio nucleo familiare alla luce di un reddito così esiguo come quello dichiarato, si presume che percepisca denaro non dichiarato a fini fiscali  in quanto provento di attività lavorativa in nero, o benefici di regalie o elargizioni di congiunti il cui ammontare consente il sostentamento. La dichiarazione  di nullatenenza, quindi, finisce con l’essere carta straccia e non consente di effettuare alcuna concreta valutazione sulla presenza dei requisiti per essere ammessi al gratuito patrocinio. Spesso, segnalano diversi avvocati, i giudici presuppongono, senza fare verifiche,  che gli imputati nascondano il loro reddito in quanto provento di reato prima ancora che ci sia una sentenza che li dichiari responsabili.

La tendenza, stando a quanto riferito da diversi legali, è cambiata da un anno mezzo a questa parte quando i giudici hanno cominciato a concedere meno il patrocinio a spese dello Stato. E’ chiaro che dietro ad alcune dichiarazioni di indigenza possono esserci degli abusi ma il punto, chiarisce Limentani, “è che i giudici non dispongono accertamenti per verificarlo, come sarebbe in loro potere”. Decidono ‘a prescindere‘ che, se una persona non muore di fame, non può essere così povera. Il che contrasta con una sentenza con cui la Cassazione, nel 2017, stabiliva che “la semplice affermazione dell’assenza totale di reddito non è affatto di per sé un potenziale inganno (com’era stato ritenuto nel caso della donna che poi ha vinto il ricorso alla Suprema Corte, ndr)” e il giudice deve attivare i suoi “poteri di accertamento”, come per esempio sollecitare l’intervento della Guardia di Finanza, per valutare se l’imputato stia mentendo sulle sue condizioni economiche solo per non pagare la parcella.

In un caso denunciato dall’avvocato Francesca Beretta, “a una donna imputata per maltrattamenti che non riceve nessun aiuto economico dai familiari è stato chiesto di dimostrare di non avere redditi da attività illecita. Nel caso li avessi – si chiede la legale – mi devo autodenunciare?”. “Siamo stanchi – afferma Beretta – viene negato un diritto a chi lo avrebbe e noi dobbiamo scegliere tra un processo gratis e rinunciare al cliente per non lavorare gratis”. Inoltre, “quando gli imputati sono irreperibili, i giudici ti costringono a produrre la dichiarazione consolare relativa ai redditi prodotti all’estero ma i consolati non rispondono mai. Sto attendendo una risposta dal 18 settembre del 2018 dal consolato del Marocco. C’è di più: molti giudici vogliono che contattiamo l’Ufficio immigrazione della Questura che, come il consolato, non risponde mai, nemmeno su sollecito”.

Interessante anche l’analisi statistica dei dati raccolti dall’Ordine degli Avvocati. In ambito civile, nel 2018 sono state 4618 le istanze di patrocinio dello Stato valutate in via preliminare dal consiglio dell’organo di rappresentanza dei legali presentate da persone richiedenti la protezione internazionale, sulla cui ammissione poi il giudice ha la parola definitiva. Circa il 50% delle richieste totali nel civile con una liquidazione media per ciascun legale  di 800 – 900 euro a procedimento (il dato non è ufficiale ma riferito da fonti qualificate). Un numero che cresce sempre di più. Ogni anno, lo Stato mette a disposizione un budget per ciascun Tribunale (a Milano 15 milioni di euro) per varie spese di giustizia, tra cui anche una somma da destinare all’istituto dell ‘avvocato gratis’. Quando il capitolato di spesa si esaurisce, le note vengono comunque liquidate dai giudici agli avvocati che però non vengono pagati perché mancano le risorse. “Come Ordine – spiega l’avvocato e consigliere Andrea Del Corno – il problema è quello delle disponibilità finanziarie per liquidare le note”. Appare evidente che le somme stanziate dallo Stato non sono sufficienti, anche alla luce dell’incremento delle domande dei migranti, il cui diritto all’avvocato è indiscutibile quanto quello per gli indigenti italiani. (manuela d’alessandro)

Giambellino, la fretta dell’immediato tradisce il pm che chiede tempo

E’ stata la fretta di celebrare il processo con rito immediato a tradire la procura nella vicenda del processo a 9 militanti del ‘comitato per la casa del Giambellino’ accusati di associazione per delinquere finalizzata alle occupazioni abusive, resistenza a pubblico ufficiale durante gli sgomberi e danneggiamenti. Dopo aver ascoltato le eccezioni delle difese che chiedevano la nullità del rinvio a giudizio immediato e quella del decreto autorizzativo delle intercettazioni il pm Piero Basilone ha chiesto tempo per replicare e i giudici della quarta sezione penale del Tribunale hanno rinviato tutto al 7 maggio.

Il rischio forte è che gli atti tornino in procura per la chiusura delle indagini la richiesta di rinvio a giudizio con rito ordinario e l’approdo all’udienza preliminare. Per non perdere un mese di tempo la procura, al cui interno qualcuno aveva espresso perplessità sulla scelta del rito immediato, ora rischia di perdere un anno.

Il giudizio immediato era stato disposto anche per le accuse non contestate a livello di misura cautelare (arresti domiciliari poi revocati) come l’occupazione abusiva di immobili e a questo punto, secondo la difesa, o si separano i procedimenti a seconda delle imputazioni oppure al fine di tenere tutto insieme “come sarebbe molto più giustificato” si ritorna indietro.

Gli avvocati, a proposito del decreto autorizzativo delle intercettazioni,  inoltre chiedono che gli atti vengano mandati alla corte europea per stabilire se un’associazione per delinquere del tipo di quella ipotizzata possa essere equiparata alla criminalità organizzata. I legali hanno ricordato come la stessa procura abbia ammesso che gli imputati non agirono per ragioni di speculazione economica ma solo al fine di avere consenso nel quartiere. L’avvocato Giuseppe Pelazza ha parlato di “un’associazione per delinquere finalizzata a occupare case che l’Aler non assegna e lascia decadere”. In una metropoli si può ricordare dove ci sono migliaia di appartamenti privati sfitti e dove cresce la fame di abitazioni. Con la magistratura che ritiene di intervenire su chi cerca di risolvere un grave problema sociale aiutando chi la casa non ce l’ha. La magistratura il giorno degli arresti si era presa gli applausi di quasi tutta la politica. Una politica che sulla mancanza di case fa nulla. A cominciare dal Comune che però ha avuto il buon gusto di non chiedere di costituirsi parte civile contro i 9 imputati. Si è costituita invece l’Aler che la faccia tosta ce l’ha. (frank cimini)

Giulia Ligresti, innocente dopo 6 anni da colpevole

Ci sono casi  in cui la fallibilità della giustizia diventa eclatante. Per  6 anni Giulia Ligresti, figlia del costruttore Salvatore, è stata colpevole con sentenza definitiva, quella con cui un giudice di Torino ha accolto la sua richiesta di patteggiare 2 anni e otto mesi nell’ambito del crac di Fonsai, la compagnia assicurativa di famiglia. Ora la corte d’appello di Milano ha revocato quel verdetto, cancellandolo, perché il 29 ottobre scorso Paolo Ligresti, suo fratello, è stato assolto per gli stessi fatti dalla Cassazione. Un innocente e una colpevole per le stesse accuse non possono essere tollerati nel nostro ordinamento e ai magistrati non è restato che prenderne atto restituendo a Giulia una fedina penale cristallina.

Non è l’unica assurdità in  questo storia perché il 19 ottobre, dieci giorni prima dell’epilogo favorevole a suo fratello, Giulia era finita in carcere diversi anni  dopo la sentenza per quella prassi dei tribunali di Sorveglianza a metterci secoli a fissare le udienze. Nonostante potesse in teoria avere accesse a misure alternative alla detenzione, il giudice di Torino aveva respinto l’istanza di messa alla prova presentata dai suoi legali, Gian Luigi Tizzoni e Davide Sangiorgio. Un mese dopo, appurato il contrasto della sua sentenza con quella favorevole a Paolo, aveva potuto lasciare San Vittore.

“La sentenza di Milano – commentano i suoi avvocati – restituisce piena dignità a Giulia Ligresti, bersaglio di un’ingiusta carcerazione e ristabilisce la verità su un’operazione finanziaria la cui reale storia inizia finalmente a essere scritta. Non ci fu nessun crac e nessuna responsabilità da parte della famiglia”.  Giulia era stata arrestata insieme alla sorella Jonella e al padre il 17 luglio 2013 con l’accusa di aggiotaggio e falso in bilancio. In seguito a una perizia medica, che aveva accertato la sua profonda prostrazione psicologica, aveva lasciato il carcere un mese dopo. Ora potrà chiedere un risarcimento per ingiusta detenzione anche se lei, nel giorno della vittoria, preferisce non infierire: “Ho sempre avuto fiducia nella giustizia senza smettere di lottare, nemmeno quando sono finita in carcere da innocente”. (manuela d’alessandro)