giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

‘Morire di Stato’, il libro che racconta le storie di di 365 “vittime dell’Italia Repubblicana”

Gianpaolo Demartis, Elton Bani. Sono i due uomini che hanno perso la vita per strada a un giorno di distanza,  dopo essere stati colpiti dai dardi dei taser usati dai carabinieri. Si allunga, con loro, l’interminabile elenco dei morti di Stato. Ma quante sono le persone cadute durante un corteo, in una caserma, in operazioni di servizio di forze di polizia? Come si chiamavano? Che storie e che responsabilità stanno dietro decine di croci piantate nei nostri cimiteri?   Il collettivo Cronache ribelli prova a rispondere. Cerca di rompere quello che definisce il  «tabù della violenza di Stato». E va oltre una manciata di nomi e cognomi non ancora evaporati dalla memoria collettiva, Giuseppe Pinelli,  Luca Rossi, Roberto Franceschi, Giannino Zibecchi, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Carlo Giuliani.

Lo strumento è il libro Morire di Stato, che ricostruisce e condivide le storie  sbagliate e le brevi esistenze di «365 vittime dell’Italia repubblicana»,  una al giorno, una parte di quelle contate tra il 1946 e il 2024.

Enrico  Costantini, Giuseppe Grossetti e Adolfo Scurti aprono la pubblicazione. Restarono a terra, a Roma, durante gli scontri scoppiati il 9 ottobre 1946 al termine di una manifestazione operaia. Chiude l’elenco parziale Ramy Elgaml, il ragazzo in sella allo scooter in fuga  guidato da un amico, braccato dai carabinieri e finito contro un palo al Corvetto di Milano, il 24 novembre 2024. Tra loro, a decine, disoccupati, lavoratori, migranti, studenti, disoccupati, contestatori, malati psichiatrici e qualche donna (Giorgiana Masi, al esempio), tifosi (come Gabriele Sandri), un militare (il parà Emanuele Scieri), i “soliti sospetti”. Spacciatori, anche. E poi rapinatori, pregiudicati, detenuti, minorenni.

Molti nomi, scorrendo l’indice, non dicono nulla prima della lettura delle schede cui i numeri di pagina rimandano, corredate da citazioni delle fonti. Altri evocano volti, indagini azzoppate, familiari in lotta per avere giustizia, aspettative deluse, polemiche.

C’è un filo comune, un collante dichiarato. La scelta di raccogliere in un solo volume casi così differenti, e spesso consegnati all’oblio, nasce da una volontà precisa. «Respingere con forza l’idea che esistano vittime di serie a e vittime di serie b, che si possano distinguere i morti tra chi merita giustizia e chi no, la divisione tra chi è degno di pietà e chi è ritenuto colpevole della propria fine».  Così nel libro vengono dettagliate «storie che è sempre più importante portare a galla e diffondere», perché «viviamo in un Paese dove ciclicamente la repressione torna a essere la risposta dello Stato al dissenso, alla marginalità, alla mancanza di servizi, alla crisi economica, alla malattia mentale, alle scelte di vita non conformi».  La controprova più recente sarebbe il decreto sicurezza, la conferma è che la conta dei morti è proseguita dopo la pubblicazione del volume.

Le analisi degli autori sono nette e a tratti urticanti, le argomentazioni destinate a far discutere e a innescare reazioni di segno opposto. «Per noi – rimarcano – nessun crimine giustifica la pena capitale.  Non solo. Nessuno dei comportamenti assunti dai protagonisti dell’almanacco in un contesto autenticamente democratico, dovrebbe avere come conseguenza la morte». E, ancora, riferendosi a chi viene associato in negativo a tutte queste vite a perdere: «Non si tratta  solo di condannare l’operato dei rappresentanti dello Stato, le azione di singoli individui. Il problema è più profondo. Il problema sta nelle leggi che autorizzano l’uso sproporzionato della forza, nelle prassi che trasformano l’intervento sanitario in operazioni di polizia, nei regolamenti e nelle legislazioni che tollerano la detenzione arbitraria, la tortura psicologica, l’umiliazione sistematica».

Morire di Stato, pagine 182, 17,00 euro, in vendita anche on line

Lorenza Pleuteri, giornalista indipendente, collaboratrice di Osservatoriodiritti.it

Tra pm e tribunale pace ridicola toppa peggio del buco

Prima scatenano la guerra sulla sentenza di assoluzione del caso Eni-Nigeria dicendone di tutti i colori a carico degli interlocutori poi cercano di fare marcia indietro con una riunione che partorisce un comunicato “di pace”. È la storia degli ultimi giorni dei rapporti tra la procura e il Tribunale di Milano.

”La giurisdizione milanese ha sempre rispettato e valorizzato i principi costituzionali del giusto processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale, della funzione del pm come organo di giustizia che dunque non vince e non perde i processi ma in conformità alle norme li istruisce” si legge nella nota a firma del presidente del Tribunale Roberto Bichi cofirmata dal procuratore Francesco Greco dal presidente della sezione misure di sorveglianza Fabio Roia dal numero uno dei gip Aurelio Barazzetta e dagli aggiunti Maurizio Romanelli e Eugenio Fusco.

Insomma questi signori in toga vorrebbero farci credere che non era accaduto nulla. Una riedizione di quanto gridava il mitico Everardo Della Noce durante latrasmissione “Quelli che il calcio”. “… ma alla fine non è successo niente”.

Eppure la mitica procura che fu di Mani pulite aveva spedito ai colleghi di Brescia competenti a indagare sui magistrati di Milano le parole di un testimone largamente inattendibile secondo il quale due avvocati patrocinatori di Eni  Nerio Diodà e Paola Severino ex ministro della giustizia avrebbero avuto “accesso” al presidente del Tribunale Marco Tremolada.

Brescia archiviava senza fare iscrizioni al registro degli indagati e senza interrogare nessuno. D’altronde si trattava di cosa senza fondamento. Ma proprio per questa ragione la mossa della procura era stata gravissima. E infatti il presidente Bichi aveva preso una posizione netta mettendo nero su bianco la parola “insinuazioni”.

Adesso arrivano i tarallucci e vino, la voglia di metterci una pietra sopra al fine di evitare ulteriori imbarazzi. Ma resta che la procura si era mossa come il classico elefante in cristalleria. Nonostante il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale in sede di requisitoria con grande onestà avesse affermato “qui sia chiaro non c’è la pistola fumante”. La richiesta di condanna poggiava su una sorta di prova logica nell’ambito del cosiddetto rito ambrosiano nato con Main pulite.

I giudici hanno deciso di assolvere e non si tratta certo del primo processo in tema di corruzione internazionale in cui la tesi dei pm di Milano è stata sconfitta. Anche se il comunicato congiunto quello della “pace” dice di non voler sentire di processi vinti e persi. La toppa è peggio del buco.

(frank cimini)

Milano capitale di rivoluzione fallita, il libro di Steccanella

Con un gioco di parole possiamo dire che Milano fu la capitale dello scontro tra capitale e lavoro, uno scontro sociale durissimo poi sfociato in una guerra civile a bassa intensità (ma neanche tanto bassa in verità).   E Davide Steccanella avvocato e scrittore, già autore de “Gli anni della lotta armata“, partendo da una serie di articoli usciti su Repubblica nell’estate del 2019, in “Milano 1962 1986 gli anni della violenza politica” ripercorre la storia per ricordare a chi c’era e spiegare daccapo a chi non c’era i fatti che evidenziano problemi non ancora risolti e per certi versi aggravati.

Scrive nella prefazione Claudia Pinelli figlia del ferroviere anarchico ucciso in Questura da un gruppo di servitori dello Stato democratico nato dalla Resistenza antifascista (definizione pomposa e solenne quanto poco rispondente al vero): “Sono tante le persone di cui si è persa la memoria, fa effetto vederle messe tutte in fila con un vissuto di cui magari non condividiamo il percorso ma che comunque va ricordato a segnare una esistenza in vita bruscamente interrotta inserita in un contesto più grande anche questo da ricordare. Non è il rimanere inchiodati al passato ma l’essersi assunti la responsabilità il non aver rinunciato anche dove la giustizia si è fermata uscendone forse vinti ma consapevoli di quello che è stato, riuscendo a trasformare la rabbia in un impegno contro l’indifferenza“.

Via Mengoni, 12 ottobre 1962. Durante la manifestazione organizzata dalla Cgil contro l’embargo Usa a Cuba muore Giovanni Ardizzone. Tra i testimoni del fatto Primo Moroni che poi fonderà la libreria Calusca punto di riferimento della sinistra rivuzionaria. “La magistratura stabilì che Ardizzone era stato schiacciato dalla folla in fuga. Noi l’avevamo visto ammazzare da una camiotta di cui ricordo gli ultimi numeri di targa, sei e otto. Questo per me fu l’ultimo episodio che fece traboccare il vaso”.

Il presunto grande partito della classe operaia in cui Moroni militava si schierò con la versione ufficiale. Compromesso storico in nuce. Moroni sovversivo di razza era fatto di tutt’altra pasta e lasciò il partito.

Poi Piazza Fontana “la madre di tutte le stragi” scrive Steccanella, l’uccisione di Pinelli dopo un fermo protratto oltre i termini di legge. Tutto benissimo ricostruito nel libro di Gabriele Fuga e Enrico Maltini dal titolo “La finestra e’ ancora aperta”, citato da Steccanella, dove in base agli atti desecretati negli anni 90 emerge la presenza in questura di uomini dei servizi segreti venuti da Roma a coordinare le indagini. Una presenza della quale all’epoca tutti tacquero anche chi avrebbe avuto tutto l’interesse a parlarne anche pee alleggerire le proprie responsabilita’. Tra i ”silenziatori” il commissario Calabresi poi ucciso il 17 maggio del 1972. Da Lotta Continua, dicono le sentenze.

“Milano in quegli anni era ricchissima di protagonismo proletario, sono anni in cui non solo gli operai ma soprattutto i tecnici sono in prima fila a portare il concetto della trasformazione sociale nella ricerca di un cambiamento per uno stato delle cose presenti che non potevano funzionare – la testimonianza di Paola Besuschio – io sono una giovane compagna vivo tutta l’esperienza del ‘68 e le Brigate Rosse per me sono un’ipotesi del prosieguo della lotta rispetto a una trasformazione di cose che in quel momento non andavano bene”. Sono le parole che la donna disse a Sergio Zavoli per “La notte della Repubblica”.

Il libro di Steccanella è fatto per smentire che quegli anni furono soltanto una scia di sangue e di politica della paura. “Non è così perché sono stati anni di conquiste sociali politiche e culturali di enorme significato – scrive l’autore – con l’approvazione di leggi quali lo statuto dei lavoratori, il servizio sanitario nazionale, la legge Basaglia, le riforme del diritto di famiglia della scuola e del diritto penitenziario, le leggi su divorzio e aborto l’obiezione di coscienza. Poi c’è stata anche un’altra storia intensa e dolorosa. Si può anche far finta che non sia accaduta ma siccome è accaduta prima di voltare una pagina bisogna leggerla  come dice  Predrag Martvejevic. E allora leggete il libro di Davide Steccanella.

(frank cimini)

 

 

La ghigliottina di Mani pulite tradotta in ritardo di 20 anni

Negli anni 90 nemmeno la Mondadori di Silvio Berlusconi impegnato in un duro conflitto con la magistratura che dura ancora oggi accettò di tradurre “Italian guillotine”scritto da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani uscito negli Stati Uniti e punto.

La lacuna è stata colmata solo adesso da Aracne edizioni, 345 pagine, 18 euro. “Da libero cittadino trovo intollerabile che i miei connazionali vengano privati del diritto di conoscere riflessioni riguardanti l’Italia indipendentemente dal loro contenuto e da chiunque le abbia formulate“ scrive Marco Gervasoni nella prefazione.

E il problema è proprio questo. Per oltre 20 anni l’opinione pubblica è stata privata della conoscenza di una riflessione molto critica su una importante operazione politico-giudiziaria. Questo sia chiaro comunque la si pensi.

Chi scrive queste poche righe per esempio non crede che Mani pulite fu un colpo di Stato ma semplicemente la vicenda di una magistratura che andò all’incasso del credito acquisito anni prima quando tolse le castagne dal fuoco per conto della politica risolvendo la questione della sovversione interna.

Le carcerazioni preventive al fine di ottenere confessioni ma soprattutto chiamate di correo, i due pesi e due misure dell’indagine sono un fatto ormai acclarato anche se all’epoca fummo in pochi a parlarne e a scriverne oltre che additati come “amici dei ladri”.

La  corruziine c’era e come anche prima del 1992 ma le procure in testa quella di Milano facevano finta di non vederla. Perché evidentemente non era ancora il momento. L’ora ics scattò nel momento in cui la politica si indebolì e le toghe le saltarono al collo gridando “adesso comandiamo noi”. E comandano ancora adesso. Basta vedere come la categoria sta chiudendo la vicenda del CSM con il capro espiatorio Luca Palanara il quale avrebbe fatto tutto da solo. Contribuendo però per esempio alla nomina di 84 colleghi al vertice di uffici giudiziari. 84 complici tutti assolti in via preventiva perché se no si rompe il giocattolo.

”La ghigliottina italiana” è assolutamente da leggere. Vale per chi allora c’era e per chi non c’era. Per cercare di trarne utili lezioni per il futuro. (frank cimini)

Moro, il libro di Bianconi spiega che “erano comunisti contro comunisti”

“Nel disorientamento generale la congettura su imprecisati collegamenti con servizi segreti stranieri, dell’est e dell’ovest, nel pese già afflitto da stragi misteriose trame occulte e deviazioni istituzionali, può perfino suonare più rassicurante rispetto all’azione proditoria di una organizzazione rivoluzionaria nostrana”. Sono sei righe secche con cui Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, spiega e contrasta la dietrologia che sul caso Moro dura dal giorno dell’agguato 16 marzo 1978 e non accenna a diminuire, nonostante non abbia mai trovato il minimo riscontro.

Come mai ha trovato riscontro un’altra congettura dei legami con i  servizi segreti del leader delle Brigate Rosse Mario Moretti, il quale tra l’altro è detenuto in regime di semilibertà dal giugno del 1981 e tale circostanza dovrebbe bastare e avanzare da sola a spazzare qualsiasi dubbio in una situazione normale in un paese normale che evidentemente non è il nostro.

Il libro di Bianconi ricostruisce quello che accadde nei 55 giorni tra i palazzi delle istituzioni e l’appartamento dove venne tenuto il presidente della Democrazia Cristiana. Punta l’attenzione sul partito della fermezza sul no a qualsiasi trattativa dove la parte del leone la fece il Partito comunista italiano che per lungo tempo dirà che le Br erano “sedicenti rosse” e il segretario Enrico Berlinguer parlerà di “metodi nazi-fascisti”. Il partito temeva la concorrenza del partito armato dentro il movimento operaio.

Del partito armato Aldo Moro prima di essere rapito aveva parlato a più riprese sia in pubblico sia in privato con i suoi figli che riferiscono: “Il concetto di partito armato per lui significava una forza reale nella vita del paese una forza incidente che aveva obiettivi determinati e che non si poteva in alcun modo sottovalutare e soprattutto era e diventava per questo un problema politico e non più strettamente un problema di polizia di ordine pubblico, giudiziario”.

Purtroppo per Moro, eccezion fatta per un gruppo di fedelissimi che si diedero da fare per salvargli la vita, la classe politica con il fronte della fermezza non solo fu di tutt’altra opinione, ma sostenne che il presidente della Dc “non era lui” nelle lettere dalla prigionia. Insomma Moro fu isolato. Lui invocava la ragion di stato per tornare a casa, ricordando che in altri paesi in casi analoghi c’era stata trattativa. La politica invece interpretava la ragion di stato nel modo esattamente opposto.

La moglie Eleonora Moro dirà : “Siamo prigionieri” con riferimento al palazzo che non ascoltava le parole accorate dei familiari.

Quello di Bianconi è uno dei pochi libri schierati contro la dietrologia alla quale hanno dato spazio anche le commissioni parlamentari, soprattutto quella della scorsa legislatura presieduta da Giuseppe Fioroni e animata da diversi esponenti del partito erede del Pci. Chi scrive queste poche righe per dare atto a Bianconi di aver fatto un lavoro onesto di ricostruzione è convinto che la maggior parte della dietrologia sul caso Moro nasca proprio da una circostanza unica. Moro fu rapito da un gruppo di comunisti mentre altri comunisti erano in maggioranza di governo. E dopo oltre 40 anni non se ne viene fuori (frank cimini)

“16 marzo 1978″ di Giovanni Bianconi. 223 pagine, Editori Laterza