giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Fondazione Mps non chiede i danni a Mussari – Vigni, li ha già perdonati?

Certe relazioni non finiscono mai. Neanche di fronte a un tradimento cruento, come quello al cuore e al portafoglio delle decina di migliaia di risparmiatori di una delle banche più antiche del mondo, il Monte dei Paschi di Siena. La Fondazione Mps, che di quella banca deteneva la maggioranza e assicurava una robusta rendita alla città di Siena, ha scelto di non costituirsi parte civile contro Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, rispettivamente ex presidente ed ex direttore generale della banca, nell’udienza preliminare che si è aperta stamattina sulla ristrutturazione del derivato Alexandria, posseduto da Mps attraverso un contratto stipulato con Nomura. Mussari e Vigni sono accusati di falso in bilancio e aggiotaggio.

 «Al momento non possiamo dare spiegazioni», fanno sapere dall’ufficio stampa della Fondazione che invece ha chiesto di costituirsi parte civile (deciderà poi il giudice) contro gli altri imputati, Gian Luca Baldassarri, Sadeq Sayeed, Raffaele Ricci. Imbarazzi, rapporti di riconoscenza?

Mussari è stato prima presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena (2001-2006) e poi di Monte dei Paschi di Siena (2006 – 2012).  Alexandria, il derivato sintetico di 3 miliardi di euro venne stipulato nel 2009 sotto la gestione Mussari – Vigni ed è stato chiuso in anticipo lo scorso 23 settembre nell’ambito di una transazione tombale.

Qual è il messaggio di questa scelta al processo? Forse che quel concentrato di poteri senesi – politico, economico, sociale, accademico, religioso, massonico,  insomma tutta la città – che è storicamente la Fondazione Mps ha di fatto perdonato Mussari o, comunque, non ha la forza di prendere le distanze da lui e da quei cinque anni di storia che hanno azzerato un patrimonio secolare? (manuela d’alessandro)

ps in serata la Fondazione diffonde una nota motivando la scelta col fatto che avrebbe iniziato una causa civile (del tutto in sordina, mai comunicata ai media), nei confronti dei “Signori” (proprio con la ‘s’ maiuscola) Mussari e Vigni a Firenze. Com’è noto, è possibile chiedere i danni sia in sede civile che penale. Sarebbe stato forse troppo?

 

L’omicidio del codice di procedura penale che ‘compie’ 25 anni

Sono passati più di 25 anni dalla introduzione in Italia di quel “nuovo” codice di procedura che nel finale del 1989 avrebbe dovuto, si disse, eliminare il vigente “rito inquisitorio” a favore del più anglosassone “rito accusatorio”. In questi anni la gran parte dei principi cardine che avevano ispirato quella trasformazione procedurale sono morti e sepolti con il risultato che l’odierno processo penale risulta meno garantista, per usare un termine tanto abusato quanto osceno, di quello dei nostri padri, rivelandosi soprattutto per l’imputato innocente una trappola esiziale.

Si volle separare la prima fase segreta delle indagini, monopolio della accusa, da quella successiva dell’accertamento in contesa paritaria davanti al Giudice “terzo” ed estraneo alla prima fase, ma il dibattimento si è da anni trasformato nel luogo ove l’accusa fa direttamente confluire, e senza passare dal via, gli esiti della prima fase e se dimentica di farlo, provvede direttamente il Giudice “terzo” ricorrendo a quei poteri di integrazione istruttoria che, previsti come straordinari, sono diventati la regola sulla base del principio dell’accertamento della verità.

Il ricorso alle intercettazioni, previsto come eccezionale ha finito con il costituire l’ossatura portante di gran parte delle indagini a prescindere dalla tipologia di reato perseguita e la prematura, quando smodata, divulgazione sui media sede primaria dei popolari giudizi al punto che si invocano resistenze al bavaglio anche per quelle che di penale rilevanza non avrebbero un bel nulla. Alcuni processi di criminalità organizzata finiscono direttamente in Cassazione con sentenze motivate sul “copia e incolla” dell’originario “file” delle intercettazioni della Polizia giudiziaria che le trascrive per il Pm che sulla base di quelle chiede al GIP la misura cautelare che sulla base di quelle la applica e che diventano in sede di giudizio abbreviato assunto motivazionale di colpevolezza, confermato dalla Corte d Appello ed insindacabile in sede di legittimità.

Si volle limitare il ricorso alla carcerazione preventiva ma l’applicazione giurisprudenziale fece diventare anche il mero silenzio dell’incolpato duplice segnale di inquinamento probatorio e di pervicacia delinquenziale, sul presupposto che chi non recide il legame con il malaffare rendendosi inaffidabile delatore rimane “intraneo” allo stesso ed introducendo persino quel “giudicato cautelare” dei pure previsti controlli incidentali, che, in assenza di impossibili attivazioni da parte di chi si trova recluso, impedirebbe al Giudice della carcerazione ogni futura rivalutazione fino a scadenza massima.

Quanto ai tanti riti alternativi al processo oggi abbiamo un giudizio abbreviato che, nato per invogliare l’incolpato con uno sconto di pena ad accettare un esito sulla base delle sole carte del PM, da un lato commina ergastoli in una unica udienza monocratica a porte chiuse con la stessa legittimazione di una Corte d’Assise impegnata in un lungo processo dibattimentale, e dall’altro legittima, come nel caso Garlasco, supplementi istruttori persino alla Corte di Appello bis nei confronti di chi è già stato più volte assolto. Il giudizio immediato, nato per consentire al PM di saltare la udienza filtro in caso di evidenze probatorie raccolte nei primi 3 mesi di indagine, viene oggi utilizzato da un lato per processare l’imputato in manette saltando i previsti termini di fase oppure per processare, caso Ruby, un colpevole così poco “evidente” da risultare poi assolto, mentre il patteggiamento, nato per definire con sanzioni non esecutive una rinuncia al processo, oggi costituisce marchio di accertata colpevolezza ed “allargato” titolo per rapide detenzioni definitive di entità tutt’altro che modesta. La stessa udienza preliminare, nata per essere un giudizio sulla indagine, oltre a rivelarsi del tutto inutile, è oggi la sede dove spesse volte il PM integra le proprie prove oltre la scadenza prorogabile, ragion per cui trova la sua essenza solo come momento primo e finale per definire alternativamente la vicenda. Continua a leggere

No agli animali nel Palazzo, caccia al geco del Procuratore

Divieto di ingresso agli animali in Tribunale: ma alcune specie continueranno a frequentare inevitabilmente gli austeri corridoi. Piccioni, rondini, topi, pidocchi, il piccolo zoo metropolitano che da sempre vegeta a palazzo di giustizia. A questa fauna nei giorni scorsi si è aggiunto, anche se per poche ore, un geco. Il piccolo rettile è stato introdotto del tutto involontariamente a Palazzo nientemeno che dal procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che – avvicinandosi il momento dell’addio all’ufficio, fissato per il 16 novembre – ha ordinato di tasca sua tre grandi piante da lasciare nel corrodio davanti alla sua stanza. Ma insieme alle piante dal vivaio è arrivato il minuscolo geco, che è balzato fuori dal vaso e ha iniziato ad aggirarsi sui marmi piacentiniani. E’ partita la caccia al geco, con l’obiettivo di portare in salvo l’animale. La caccia capitanata dal Procuratore ha avuto momenti quasi comici, ma alla fine il geco è stato catturato e chiuso in una bottiglia. Poche ore dopo pare sia stato liberato nel giardino di casa Bruti, confidando che l’inverno milanese non sia troppo inclemente. (orsola golgi)

Il memoriale di ‘nonna’ Gucci, case e dolori di un’ereditiera (sobria)

 

“Quanto ereditato mi ha consentito di vivere sempre senza problemi”. Eccolo il sogno di molti italiani, evocato dalla signora Silvana Barbieri, mamma di Patrizia Gucci, in un memoriale consultato da Giustiziami ed entrato a far parte del processo che vede imputata l’ereditiera assieme alle nipoti Allegra e Alessandra Gucci per evasione fiscale. Il pm Gaetano Ruta ha chiesto per tutte loro l’assoluzione dalle accuse di avere nascosto al fisco 9 milioni (le sorelle) e 88mila euro (la nonna) sostenendo che “all’origine ci sarebbe stata la pianificazione di un’evasione di cui però non è stata raggiunta la prova”.

Il documento del luglio scorso, lungo 17 pagine, ci consegna scampoli della storia immobiliare, giudiziaria e umana della vedova Reggiani, ora 89enne, e della figlia Patrizia, condannata a 26 anni per essere stata la mandante degli assassini del marito Maurizio Gucci e ora in libertà. Nelle ‘memorie’ scorre un pezzo della saga glamour ‘in nero’ di una delle più importanti dinastie della moda nel mondo. Anche Silvana Barbieri venne processata per l’omicidio dell’erede della maison ma fu scagionata nel 2000 dall’accusa di aver aiutato la figlia a cercare un killer per sbarazzarsi di Maurizio.

SOBRIETA’ 

 ”Dopo la morte di mio marito nel 1973 ereditai un cospicuo patrimonio immobiliare (…) nonostante la mia condizione economica benestante, e la mia ancora giovane età ho sempre avuto uno stile di vita sobrio, sicuramente agiato,ma schivo da ogni ostentazione, o lusso eccessivo. Ero attenta a ogni spesa (…)

MONTECARLO, MON AMOUR

“Mi liberai di quegli immobili che avevano un particolare valore affettivo o evocavano brutti ricordi e conservai quelli che erano frutto del lavoro di mio marito ed erano per me la fonte di reddito. La casa di Corso Matteotti era un trilocale con terrazzo più servizi preso in locazione perché non avevo ancora deciso dove stabilirmi definitivamente (…) Conobbi la titolare di un’agenzia immobiliare a Montecarlo, dove mi trasferii, che mi trovò un appartamento non particolarmente grande (100 mq) ma sito in una posizione prestigiosa che affacciava direttamente sul porto. Fu da me arredato finemente ed era un vero e proprio bijoux. Le mie nipoti Alessandra e Allegra venivano spesso lasciate da Maurizio e Patrizia da me quando andavano a fare i loro viaggi in giro per il mondo e la casa divenne piccola. Acquistai un nuovo immobile con una posizione splendida e un bel terrazzo (…) Ospitavo sovente amici, conobbi il Principe, e frequentavo molte persone. La cerchia più stretta di amici comprendeva ad esempio la contessa Offedduzzi, la nota famiglia ebrea degli Alzarachi, la famiglia Aldrovandi, noti produttori di calzature (…)Venivo a Milano per gli affari attinenti ai cespiti immobiliari e per vedere mia figlia quando non era nell’abitazione di St. Moriz o altrove, mentre a Montecarlo si svolgeva la maggior parte della vita sociale, che occupava gran parte del mio tempo, non avendo io esigenza di lavorare ma potendomi gestire il mio patrimonio ereditario”.

L’OMICIDIO

“Il 1995 fu l’anno in cui il mio genero Maurizio Gucci venne ucciso (…) pur nella drammaticità del frangente (Patrizia venne arrestata nel 1997) le mie permanenze e abitudini non dovettero modificarsi in modo sostanziale. Pur mantenendo la mia residenza e le mie frequentazioni  a Montecarlo si rese necessaria (e non fu certo una scelta) una mia più intensa presenza a Milano, sia per i colloqui in carcere con mia figlia sia per quelli con gli avvocati (…) Fui invitata dalle mie nipoti a utilizzare la casa di Porta Venezia che divenne il punto di appoggio per tutte noi. Era una prestigiosa abitazione di proprietà della famiglia Marelli che Maurizio Gucci aveva scelto per andarvi ad abitare con la sua nuova compagna e che aveva preso in locazione da una società della famiglia Marelli attraverso una società estera a lui riconducibile. (…) Personalmente ero estranea a tale società estera. Gli onerosi canoni di locazione furono sempre pagati in automatico, in forza del contratto di locazione della società estera, con liquidità derivanti dal patrimonio Gucci. Non contribuivo in alcun modo con le mie sostanze.

IL MIO PATRIMONIO TUTTO CESPITI

“Circa il mio patrimonio, confermo che tutte le entrate sono sempre derivate da cespiti ereditati che avevo venduto (es. casa di via dei Giardini, casa al mare) o locato (…) Quello che ho ereditato mi ha sempre consentito di vivere senza problemi. Dalla metà degli anni ’90, Montecarlo per me e St. Moriz per le ragazze erano luoghi più sereni di Milano ove ci attendevano solo problemi. Debbo confessare che quella vicenda ha inciso profondamente nella mia vita e nel mio modo di relazionarmi agli altri. Divenni più schiva e meno propensa alle relazioni sociali, notai un raffreddarsi nei rapporti con molte persone e comunque in generale le mie relazioni sociali si diradarono significativamente anche per una sorta di mio irrazionale pudore, del tutto in giustificato per quel che mi riguarda, potendo dire di aver vissuto a testa alta tutta la mia esistenza, tutt’altro che priva di problemi.

LA CASA DEI SOGNI VICINO AL PALAZZO DA 6 MLN

“Fu così che nel 2004 acquistai fu acquistato l’immobile di via Andreani (ndr, a pochi metri dal Palazzo di Giustizia) attraverso l’acquisto dal precedente proprietario (da parte della capogruppo delle mie società, la Mauzia) delle quote della Soire srl, società precedente intestataria dell’immobile. Fu versato dalla Mauzia un acconto di un milione di euro mentre fu acceso un mutuo ipotecario per i rimanenti cinque milioni costituenti il saldo prezzo. (…) Allegra e Alessandra si dichiararono disponibili a prendere in locazione l’immobile per partecipare ai costi di gestione. La locazione si concretizzò attraverso un contratto tra Soire e una società di cui si servivano le ragazze. Venne deciso un canone di 200mila euro a favore di Soire.

LE SPESE EXTRA CARCERE E LUSSO  DI PATRIZIA 

“Allegra e Alessandra (che hanno ereditato il patrimonio Gucci e hanno disponibilità ben superiori alle mie) hanno sempre contribuito in modo consistente per Patrizia, sia per quel che riguarda il mantenimento in prigione sia per gli acquisti e le spese (non indifferenti) che la mamma – certo non badando al risparmio – effettuava nel corso delle uscite dal carcere (parrucchiera, estetisti, accessori, sartoria e vestiario di qualità) oltre che per le spese della casa di via Andreani. A tale scopo venivano inviati sul mio conto italiano, a cadenza bimestrale, 25 o 30mila euro funzionali a queste spese. Il denaro proveniva da disponibilità estere delle mie nipoti e tramite in conto svizzero veniva girato sul mio conto dov’è diventato oggetto di contestazione a titolo di reddito non dichiarato. In realtà erano accrediti di Allegra e Alessandra, quale contributo delle spese di cui sopra”.

Manuela D’Alessandro

 

 

Giustizia folle, 300mila euro “per non aver educato il figlio”

Due genitori milanesi sono stati condannati a risarcire 300 mila euro con sentenza della Cassazione “per non aver educato il figlio” che quando aveva 12 anni urtò con la sua bici quella di una donna finita nel Naviglio e morta dopo un anno e mezzo di agonia.

“Culpa in educando” è la formula giuridica. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Il ragazzo che ha 26 anni è tuttora in terapia psicologica, i genitori intanto hanno venduto la casa di Milano e vivono in affitto nell’hinterland. Non hanno i soldi per pagare. La mamma ha un lavoro part-time nel settore delle pulizie, il padre è impiegato in una ditta di soccorso stradale. Entrambi chiedono che un giudice rilegga le carte. Il ragazzo, che il giorno della tragedia era affidato all’oratorio, non è mai stato ascoltato nel corso della causa.

E’ la vicenda di una giustizia che sembra ignorare cosa sia la vita quotidiana, con le toghe che hanno la presunzione di decidere in che modo si educa un bambino di 12 anni. Chi ha un minimo di spirito critico è consapevole che alcuni giudici ne fanno anche di peggio, ma il caso lascia particolarmente sbigottiti. I genitori riferiscono di essersi appellati a varie autorità “ma sono spariti tutti”. Resterebbe solo la corte europea di diritti dell’uomo, organismo che ha diverse volte in passato condannato la nostra giustizia per le ragioni più diverse. L’imputato eccellente per antonomasia, da quando si occupa di lor signori in toga per ragioni molto poco nobili, i fatti suoi e basta, propose che dei giudici fosse verificata la capacità psichica una volta l’anno. A questo punto sarebbe meglio stare sui 6 mesi. Sia per noi sia per loro. (frank cimini)