giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

48 anni senza un giorno di assenza e con passione, va in in pensione Laura Bertolé Viale

Quarantotto anni e mezzo senza un giorno di malattia.

“Ecco, tutto quello che dovevo fare l’ho fatto”.  Laura Bertolé Viale sposta alcuni fogli sull’immenso tavolo del suo ufficio elegante, quasi li accarezza. C’è una firma importante, l’ultima della sua vita giudiziaria, con la quale toglie l’indagine, per assegnarla a quello che ancora per oggi è il suo ufficio, a un pubblico ministero che non ha indagato a fondo su un delitto. Negli ultimi cinque anni da avvocato generale dello stato, come mai nessun suo predecessore, ha esercitato il potere – dovere di avocazione, anche inimicandosi magistrati di peso a cui biasimava scarso ardore investigativo. E’ stata la prima a mettere il naso tra i rovi burocratici e reali dove è in costruzione da 20 anni l’aula bunker del carcere di Opera, ottenendo che la corte dei conti aprisse un’indagine. E una dei pochi ad accorgersi che il sistema di affidamento dei fondi Expo alla giustizia milanese era oscuro e non rispettoso della legge, tanto da decidere di starne fuori mentre attorno a lei c’era la corsa alla fetta più sostanziosa.

“Sono entrata in magistratura nel maggio del 1968, tredici anni al tribunale civile e  poi ho seguito da giudice penale e da pubblico ministero tutti i terrorismi: rosso, nero e islamico”.  Ha sostenuto l’accusa nei processi d’appello per le stragi di piazza Fontana e della Questura di Milano, giudice estesore della prima condanna in appello perAdriano Sofri, si è occupata dell’omicidio Calabresi. E’ stata anche rappresentante dell’accusa in diversi processi a Silvio Berlusconi (All Iberian, Mills, diritti tv, nastro Unipol).

“Ho fatto tutto, vado in pensione contenta”. Magistrato con la porta sempre aperta a tutti, mancherà molto a una giustizia che non ama guardare allo specchio le sue deformità. (manuela d’alessandro)

ce-un-solo-magistrato-arrabbiato-allanno-giudiziario-2015

Il broker segreto dei francescani
si è impiccato in casa

Il signor Rossi s’è tolto la vita. Impiccato. In casa, una villetta in fondo a una via tra edifici bassi e i campi in collina ai marigini di Lurago D’Erba, piena Brianza. Quando i finanzieri del Nucleo Valutario hanno suonato il citofono, questa mattina, non ha risposto nessuno.

Ieri avevano perquisito gli uffici della Anycom Srl, proprio accanto al tribunale di Milano. Per oggi era prevista la perquisizione. I sigilli alla casa erano già stati apposti ieri.

Il signor Rossi, al secolo Leonida, 78 anni, era un professionista che si muoveva tra Svizzera e Italia, e investiva il patrimonio dei francescani di mezza penisola grazie agli incarichi ricevuti da Giancarlo Lati, economo generale della Curia Generalizia dell’Ordine dei Frati Minori, Renato Beretta, economo della ‘provincia’ lombarda e Clemente Moriggi, economo della Conferenza dei Ministri Provinciali dell’Ordine dei Frati Minori. Rossi avrebbe riciclato oltre 26 milioni di euro sottratti alle casse dei francescani impiegandoli “in attività economiche, in particolare in attività edilizie speculative”, come si legge nel decreto di perquisizione firmato dai pm di Milano Adriano Scudieri, Sergio Spadaro e Alessia Miele. Attività che però non rientravano, stando alle accuse, tra “gli scopi e le finalità religiose degli enti” da cui quei denari provenivano. Quei fondi, stando alle indagini, venivano trasferite sui conti di Rossi per poi essere reinvestiti “nella realizzazione di complessi immobiliari (villaggi turistici, alberghi, ecc.) in alcune zone dell’Africa nonché nel Medio Oriente”. E solo “a fine 2014, dopo le continue richieste pervenute dai citati enti religiosi circa la restituzione delle somme dovute”, Rossi ammette di non potere più restituire i capitali ricevuti. “A partire dalla fine del 2011 Rossi aveva infatti progressivamente rifiutato le restituzioni, facendo infine registrare l’ammanco di cassa”. Ci sarebbero altri soldi gestiti in modo sospetto, tra cui 680mila euro dell’Opera Don Bosco per le Missioni.

Ora il signor Rossi non potrà spiegare più niente. (manuela d’alessandro)

Schiaffo e sbeffeggi dalla Svizzera a Renzi, no al rientro del miliardo per Ilva

La ‘Salva Ilva’ voluta dal governo Renzi per dare ossigeno al gigante siderurgico prostrato dalle inchieste giudiziarie si schianta contro la Svizzera. Il Tribunale Federale di Bellinzona boccia lo sblocco verso l’Italia di 1,2 miliardi di euro che erano stati sequestrati alla famiglia Riva come frutto di presunti reati in una delle tante indagini sulla gestione dell’azienda.

Nella sentenza con cui negano il rimpatrio, i magistrati di Bellinzona massacrano con toni quasi sbeffeggianti il nostro sistema giudiziario e la norma che avrebbe dovuto risollevare la fabbrica un tempo orgoglio italiano. Sotto accusa c’è il sofisticato meccanismo previsto dalla ‘Salva Ilva’ per permettere alla società di utiilizzare i fondi sequestrati ai Riva attraverso la sotttoscrizione di obbligazioni da parte dell’azienda dell’acciaio. “La consegna del denaro – scrivono le toghe elvetiche – a causa della costellazione giuridica in Italia avrebbe come risultato che i valori in questione sarebbero stati subito convertiti, senza che vi sia una sentenza di confisca passata in giudicato ed esecutiva, in obbligazioni di una società in fallimento soggetta ad amministrazione straordinaria”. Questo significherebbe che “i beni patrimoniali sarebbero convertiti in titoli con valore non equivalente (presumibilmente senza valore o con valore fortemente ridotto) e ciò costituirebbe un’espropriazione senza un giudizio penale“.  Il principio, tanto caro agli svizzeri, è quello di conservare il denaro sequestrato fino a una pronuncia definitiva non facendogli perdere valore.

Cosa succederà ora? Il miliardo e passa resta ibernato presso la banca luganese Ubs e non torna alle figlie dell’ex patron, morto nel 2014, Emilio Riva, che avevano presentato ricorso contro la decisione della Procura di Zurigo, cancellata dal Tribunale Federale, di dare il ‘via libera’ allo sblocco dei soldi. Le eredi di Emilio sono state ritenute “non legittimate” a presentare l’istanza. Entro 10 giorni i magistrati di Zurigo potranno ricorrere contro i colleghi federali ma è molto probabile che anche la Procura di Milano non resti impassibile a guardare la montagna di denaro risucchiata oltreconfine. (manuela d’alessandro)

Il comunicato del Tribunale Federale di Bellinzona

taranto-aspetta-la-rinascita-ma-le-figlie-di-riva-bloccano-il-miliardo-salva-ilva-in-svizzera

 

 

 

La tesi di laurea sulla tortura ‘all’italiana’, in attesa di una legge

“I detenuti hanno subito non singole vessazioni ma una vera e propria tortura durata per più giorni e posta in essere in modo scientifico e sistematico”. Sono le parole con cui il Tribunale di Asti sintetizzava la vicenda, denominata la “Abu Ghraib italiana” in cui furono imputati 5 agenti di polizia penitenziaria, poi non sanzionati a causa di deribricazione del reato, prescrizione e mancanza di querela, ma soprattutto perché nel nostro paese continua a mancare una norma che preveda la tortura come reato. Del caso di Asti parla la tesi di laurea di Silvia Galimberti per dimostrare “come i tempi siano maturi per approvare una legge che dia allo stato la possibilità di punire coloro che non aderiscono al concetto di stato democratico inteso nella sua concezione più ampia, ossia quella di uno stato in grado di assicurare la giustizia e la legalità anche senza l’ausilio di mezzi barbari come la tortura”.

“Tortura all’italiana” è il titolo della tesi che ricorda altre note vicende di cronaca da Cucchi ad Aldrovandi, al G8 di Genova con i fatti della scuola Diaz e della caserma Bolzaneto fino al caso del giudice di Los Angeles che negò l’estradizione in Italia del boss Rosario Gambino spiegando che l’articolo 41 bis del regolamento carcerario era da considerare una forma di tortura. A questo proposito va ricordato che la nostra Corte Costituzionale non ha mai voluto censurare la norma relativa al carcere duro.

Nella tesi si ricorda come in Italia durante il sequestro Moro si discusse della possibilità di ricorrere alla tortura. “Si prese la decisione di non impiegarla per le parole del generale Dalla Chiesa: ‘L’Italia può sopravvivere alla perdita di Aldo Moro ma non può sopravvivere all’introduzione della tortura’”.

Formalmente di scelse di non torturare. I fatti di quegli anni e non solo dicono ben altro. Enrico Triaca (il caso non è tra quelli citati nella tesi), il tipografo di via Foà, arrestato per il rapimento del leader dc, denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Solo in anni recenti in sede di revisione la condanna è stata annullata dal tribunale di Perugia. Triaca era stato torturato, anche se i responsabili del fatto non potevano più essere perseguiti ovviamente a causa della prescrizione.

L’Italia secondo il generale Dalla Chiesa non sarebbe sopravvissuta all’introduzione della tortura. Purtroppo è sopravvissuta alla mancata introduzione del reato di tortura, pratica mai caduta in disuso. Chi si oppone spiega che sanzionare la tortura sarebbe penalizzante per agenti di polizia e carabinieri. E lo dice perchè sa benissimo che quei metodi vengono usati. (frank cimini)

In Anm baruffa via mail sul comunicato di ringraziamento a Bruti Liberati

“L’Anm, certa di interpretare il sentimento di tutti i soci saluta affettuosamente nel giorno del suo congedo Edmondo Bruti Liberati e lo ringrazia per il contributo prezioso che ha sempre offerto per l’attività dell’associazione nella quale ha rivestito con saggezza e spirito di unità il ruolo di segretario generale e presidente in anni difficili”. E’ il comunicato dell’associazione nazionale magistrati che ha dato il via alla baruffa interna sulle mailing.list.

“Grazie di queste espressioni – gongola l’ex procuratore -  Sono così belle che rischio uno sdoppiamento della personalità: mi chiedo se sono proprio io, la persona alla tastiera, quella di cui parlate…”.

“Prima di parlare a nome di tutti chi rappresenta un’associazione dovrebbe informarsi sul vero sentimento dei propri soci e sulle persone che intende incensare”, è una delle note critiche dove si ricorda che la personalità del procuratore di Milano “è stata molto divisiva al suo interno”.

“Per interpretare correttamente il sentimento dei soci sarebbe bastato leggere questa mailing-list nei diversi mesi dello scontro nella procura di Milano… Non mi pare di ricordare un encomiabile spirito di unità” si legge ancora.

C’è chi ricorda le parole di Bruti Liberati al collega Alfredo Robledo nel corso del contenzioso poi finito con il trasferimento dell’aggiunto a Torino. Bruti “apostrofò” il suo aggiunto affermando che la nomina dello stesso era stata determinata dalla “incontinenza” di qualche consigliere del Csm.

C’è poi chi in modo secco si dissocia dal comunicato dell’Anm “concernente il pensionamento di Bruti che non ha la mia stima nè sul piano personale nè su quello professionale e che diventò capo di una procura delicata in base alla nota profezia dell’allora consigliere del Csm Celestina Tinelli intercettata in una ‘scomoda’ telefonata”.

Altri colleghi manifestano fastidio “per l’effluvio di mail celebrative”. “Il fatto è che l’improvvida moda  dei cosiddetti bilanci sociali degli uffici giudiziari non contempla l’ipotesi del loro mancato gradimento verso il pubblico” è il contenuto di un’altra mail critica verso quella che fu una delle innovazioni di Bruti al vertice della procura di Milano.

“Un gruppo di persone tenta di coprire in un giubilo retorico una storia complessa e molto rilevante, il tutto in poche mail e senza spargimento di sangue, così da non innescare l’ennesimo coro di ‘je suì Edmondo Bruti Liberati’. Direi un eccellente risultato per la democrazia” è lo scritto di un magistrato che invita un collega: “E accattati un vocabolario”.

E ancora: “Perchè l’Anm fa simili comunicati di commiato per taluni colleghi e tace del tutto per altri”. C’è chi da là colpa alla “ossessione del partito unico che impazza nel paese e che ci deve vedere per forza arruolati”.

Insomma i vertici dell’Anm danno la sensazione di aver prevaricato almeno una parte degli iscritti i quali non stanno zitti e lo fanno notare. Chissà se questa baruffa via mail influirà in qualche modo sul Csm che dovrà nominare il successore di Bruti. Continuità o discontinuità? Interno all’ufficio o esterno? I 90 e passa pm intanto aspettano di sapere se e cosa cambierà, dopo aver vissuto l’asprezza di uno scontro interno che ha lasciato non pochi strascici anche se Bruti nell’intervista d’addio aveva detto: “Ufficio tranbquillo da quando non c’è più quella persona. Il problema non ero io”. (frank cimini e manuela d’alessandro)