giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Perché non è giusto scrivere i nomi degli agenti del Beccaria

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C’è un ragazzo che chiede un accendino. L’agente risponde “Ma perché mi rompi i coglioni?”, gli tira un pugno in un occhio e poi arrivano altri con la divisa. In quattro lo buttano a terra, calci e pugni. Il ragazzo piange, sanguina dalla bocca. C’è n’è un altro che gli resta sulla nuca l’impronta della punta di uno stivale mentre il sangue gli cola dal labbro. Gli agenti si fermano solo perché arriva la direttrice che ordina di sfilargli le manette. Le manette in un carcere si dovrebbero vedere solo in casi eccezionali. Nell’inchiesta sul carcere Beccaria vengono evocate spesso: le manette sulle mani dietro  la schiena dei giovani detenuti, nudi, gettati al suolo, legati a un tavolo.

“I nomi e cognomi di questi 13 poliziotti penitenziari arrestati andrebbero elencati uno per uno” dice qualcuno, con gli occhi sulle carte e un sincero sbigottimento nella sala stampa del tribunale. Molti dei venticinque indagati hanno tra i trenta e i quarant’anni, sono persone che per lavoro si sono trasferite a Milano. Quando hanno messo per la prima volta la divisa profumata di fresco e sono entrati al Beccaria pensavano di diventare dei crudeli fustigatori di ragazzini? In conferenza stampa viene spiegato che la percezione di alcuni degli indagati era che fosse normale reagire alle ‘vivacità’ dei giovani con “uno schiaffo educativo” che poi nella realtà descritta nell’ordinanza sarebbero state delle torture. E’ importante rispondere alla domanda sulle ambizioni di questi uomini e una donna quando hanno iniziato a lavorare al Beccaria. Non crediamo che  la metà degli agenti in servizio  siano entrati in un carcere minorile per fare quello di cui sono accusati.  Nell’ultimo report del garante dei detenuti Francesco Maisto affiorava l’immagine dei ragazzi in isolamento che pranzavano coi piatti sulle ginocchia perché il refettorio non funzionava e nelle celle non c’erano nei tavolini. Si spiegava anche che molti di questi ragazzi in teoria sarebbero destinati alle comunità che però non li prendono perché non hanno posto o sono casi molto problematici o sono minori non accompagnati. Com’è stato possibile che per due anni il Beccaria sia diventato un ring di continui combattimenti, col sangue versato in terra (“E’ normale al Beccaria essere picchiati” afferma  un ragazzo intercettato), stanze riservati ai pestaggi, urla di dolore, reclusi che si aggiravano con lividi ed ematoni per i corridoi? Oltre ai ‘soldati semplici’ c’è un solo indagato, per falso, ed è una persona che per un periodo ha comandato la polizia penitenziaria. Può essere anzi è probabile che l’inchiesta non sia finita qui.

“Ci andrei cauto a sostenere che ci fosse un’organizzazione” afferma intanto il procuratore Viola. In effetti non viene contestata un’associazione a delinquere. Esiste però un mondo oltre la giustizia penale ed è il carcere dei 32 suicidi di detenuti, quattro di agenti, degli omicidi in cella e della sofferenza senza numero di questo inizio 2024. Della mancanza di personale, di agenti che devono fare le guardie, gli psicologi e gli educatori perché sono pochi gli psicologi e gli educatori, di agenti che non hanno una formazione adeguata nemmeno per fare gli agenti.

Esistono delle responsabilità politiche maturate almeno negli ultimi 20 anni chiare, precise e concordanti. Il buio oltre le sbarre, il buio senza ritorno. Ecco perché no, l’elenco di nomi e cognomi degli agenti non va fatto se prima non vengono fatti a caratteri cubitali quelli di chi ha amministrato la giustizia da 20 anni. Se gli agenti saranno giudicati colpevoli, pagheranno col carcere a loro volta, perderanno il lavoro, porteranno un’onta indelebile sulle spalle.  Ma il carcere non cambierà col loro carcere.  Solo la politica e la coscienza civile di un Paese possono. E far entrare lì dentro quella che ora sembra una caverna i cittadini e i giornalisti. Fare luce, il più possibile e subito.

(manuela d’alessandro)

Categoria: carceri