giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Negata la libertà per una sigaretta non spenta

 

Non spegnere una sigaretta, anzi non spegnerla velocemente, può costare la libertà. Protagonista della vicenda G.M., un detenuto 48enne di origini marocchine detenuto nel carcere di Rovigo per il reato di maltrattamenti in famiglia. Il Tribunale della Sorveglianza di Padova gli ha negato la liberazione anticipata  per essere incorso in un rilievo disciplinare “poiché – si legge nel provvedimento – dopo essere stato invitato da un agente di polizia penitenziaria a spegnere la sigaretta, continuava a fumare, fatto di cui il detenuto successivamente si scusava e per il quale è stato richiamato”. Inoltre, aggiunge il magistrato, “l’agente riferisce che il detenuto ha polemizzato con lui che lo aveva ripreso e che G.C. era stato sorpreso a fumare negli spazi comuni anche in altre occasioni, anche se non risulta elevato alcun rilievo, per cui l’episodio pare indicativo di una scarsa aderenza al percorso trattamentale”. L’istanza di liberazione anticipata, se accolta, comporta la riduzione della pena di 45 giorni per un semestre di pena espiata e avrebbe consentito a G.C. l’immediato ritorno alla libertà.

“Il motivo del rigetto è quasi grottesco – commenta il suo legale, l’avvocato Simona Giannetti – se si pensa che in carcere una sigaretta ha un valore che non è lo stesso nel mondo esterno; questo per chi ogni tanto ne visita uno, ovviamente. Nel frattempo, considerato che si parla di trattamento penitenziario e di mancata adesione, mi sembra che si debbano prendere le misure di ciò che sia effettivamente il trattamento, inteso come un percorso di rieducazione del condannato attraverso l’adesione a comportamenti che ne dimostrino la disponibilità al reinserimento sociale. Mi chiedo – conclude il difensore – se non spegnere una sigaretta in un tempo non esplicitato e poi chiedere scusa, possa davvero ritenersi come non adesione a quel percorso risocializzante”.  (manuela d’alessandro)

Milano è il primo comune parte civile contro il cybercrime

Per la prima volta un Comune, quello di Milano, entra come parte civile in un processo per chiedere che vengano risarciti i cittadini vittime di frode informatiche. Succede nel giudizio col rito abbreviato a carico di 13 imputati che avrebbero costituito un’ associazione a delinquere tra l’Italia e la Romania finalizzata, tra le altre cose, alla clonazione delle carte di credito e alla falsificazione di documenti d’identità.

Il giudice Lorenza Pasquinelli ha accolto l’istanza in cui il legale dell’amministrazione comunale, l’avvocato Federico Bier, evidenzia che le tecniche utilizzate dal presunto gruppo criminale, tra cui e – mail ‘trappola’, “si caratterizzano per essere particolarmente subdole, tese a colpire in particolar modo vittime vulnerabili che per diverse ragioni si dimostrano inesperte nel fronteggiare tentativi di frode informatica e spesso, per debolezza e timore, rinunciano a sporgere denuncia”. Persone che “ingannate dalle richieste provenienti dai falsi istituti di credito presso i quali erano correntisti, hanno fornito in buona fede le credenziali di accesso ai loro conti, dai quali sono state sottratte somme di denaro”. Attraverso il suo legale, il Comune fa presente di avere da anni attivato una serie di iniziative, anche in collaborazione con la Procura,  per prevenire i reati informatici e ha costituito nel 2014 un ‘Fondo per le vittime vulnerabili’.  Ad alimentarlo sono i risarcimenti degli indagati, come i 9mila euro versati da Salvatore Aragona, uno dei presunti capi dell’associazione a delinquere, che ha ottenuto l’ok del pm Francesco Cajani a patteggiare una pena a 3 anni e sei mesi di carcere. Scopo della costituzionale di parte civile è quello di chiedere i danni non patrimoniali “sotto il profilo del turbamento provocato ai cittadini” e patrimoniali “con riferimento alle spese sostenute dal Comune, anche sotto il profilo organizzativo, per la realizzazione di tutte le attività di prevenzione, formazione e contrasto ai reati informatici”. (manuela d’alessandro)

Ciao Emilio, con te ridevamo di più

Difficile entrare di nuovo in queste quattro mura a rettangolo, con la luce sempre più fioca, senza vederti almeno un’altra volta. Senza vederti un attimo prima che tu te ne accorga, mentre sei di schiena e stai già finendo di leggere i giornali, o hai già finito. Sei stato il primo ad arrivare ancora una volta, ma qualche volta ti battiamo anche noi e allora la nostra classifica cambia e tu magari ti piazzi anche al terzo posto, per un bronzo, dopo tanti ori.

Quando arrivi per primo, però, si vede, perché la sala ha tutte le sedie in ordine attorno al tavolo e quando tutto è in ordine con te si chiacchiera meglio, sembra, si ride di più, quanto si ride con te. Chissà perché, poi, ci scappa da ridere ancora una volta quando, infilato lo zaino, imbocchi la porta, che ti contiene appena, e ci dici ‘va bene, vado a darvi un buco’ o ‘ci vediamo alle 18 e facciamo un punto?’. Sono sempre le stesse cose, è semplicemente essere fianco a fianco sulla panchina, anche quando in quel corridoio fa troppo caldo o troppo freddo, tu che racconti un segreto in più di questo posto e qualche volta anche della tua vita. Volerti bene è naturale, perché quando apri il sorriso sei tu il primo a volerci bene. E non si direbbe proprio che quel sorriso si possa aprire, ma quando succede siamo felici, anche tu. È una terra dura questo lavoro qua, un lavoro duro come ce ne sono, tutti competitori, tutti accanto, tu non hai mezze misure, tu ci vuoi arrivare per primo, ci arrivi, perdi le parole, il saluto, c’è sempre una colpa ma già oggi non c’è più. Oggi manca sentirti dire qualsiasi cosa a modo tuo. Se ti dicessimo che ci hai insegnato qualcosa, risponderesti ‘ma vaaaa’. Allora Emilio ti diciamo che con noi ti sei fatto tante risate in più e che ci volevi bene. Tu al primo posto e noi al secondo te ne vogliamo.

Quello che c’è ancora da fare sul fine vita per Cappato

“Senza la forza di Beppino Englaro non saremmo arrivati alla legge sul biotestamento né alla sentenza della Corte Costituzionale su Dj Fabo che chiede al Parlamento di intervenire”. Marco Cappato è l’uomo che, da leader dell’associazione ‘Luca Coscioni’, ha attraversato da protagonista quella che lui chiama la “rivoluzione copernicana” sul fine vita in Italia, rischiando il carcere per avere accompagnato tanti malati a morire in Svizzera e sostenendo le battaglie pubbliche di alcuni di loro diventati dei simboli. “Quella di Beppino è stata la prima delle storie che hanno contribuito a fare dei passi avanti decisivi. La caratteristica fondamentale di Beppino è stata la sua serietà quasi monomaniacale, ossessiva nel ribadire il punto della storia di Eluana, senza mai fare politica, o meglio, facendola solo in relazione a quello che Eluana voleva. Non si è mai distratto, è stato cocciuto: si batteva per il rispetto di quello che Eluana desiderava, non si è mai messo a parlare d’altro”. I “passi avanti” sono avvenuti nelle aule di giustizia, fuori dal Parlamento: “Sono stati tre i provvedimenti  giudiziari che hanno segnato delle svolte. Il proscioglimento del medico Mario Riccio per avere aiutato a morire Piergiorgio Welby, l’archiviazione dell’inchiesta a carico di Beppino Englaro e la sentenza della Consulta su Dj Fabo che chiede alla politica di riempire il vuoto legislativo su casi come quello di Fabiano Antoniani. L’altra vicenda chiave è stata quella di Walter Piludu. Dieci anni dopo il caso Welby, ai medici della Asl di Cagliari è stato ordinato di intervenire dal giudice. Quindi siamo passati dal caso Welby, dove un medico è stato incriminato all’inizio per avere staccato la spina, e poi prosciolto, al caso Piludu in cui ai medici  è stato ordinato di interrompere la respirazione artificiale, su sua richiesta ovviamente. In dieci anni, senza nessun intervento legislativo, è stato stravolto il rapporto tra medico e paziente”.
C’è “un faro” per Marco Cappato a unire gli epiloghi di queste storie ed è “nell’articolo 32 della Costituzione,  quello per cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”. Invita a non fermarsi alle differenze terminologiche (eutanasia, biotestamento, stop all’alimentazione forzata) perché “quello che le lega tutto è il diritto ad autodeterminarsi. Ad Eluana non si sarebbe potuta sospendere l’alimentazione se non ci fosse stato un momento, ricostruito dai giudici in base alle testimonianze, in cui lei, e non suo padre o i magistrati, aveva espresso in modo chiaro la sua volontà”.
La politica è pronta adesso per dare seguito all’invito della Consulta a scegliere come definire casi come quello di Dj Fabo? “Io credo di sì, poi non è detto che lo faccia, non sono né ottimista né pessimista.  Lo ritengo possibile perché non dico io, ma tutti i sondaggi possibili e immaginabili, che tre quarti degli italiani sono favorevoli al fatto che la persona sia libera di decidere. La possibilità di avere una buona legge sta nel fatto che c’è un sentimento diffuso a favore della libertà di scelta”.
Se è vero che i momenti cruciali sono stati certificati nelle aule dei tribunali, per Cappato il cambiamento è andato avanti in modo ineluttabile per due ragioni: “La prima, la più importante, è che è mutato il modo di morire, sia per il progresso tecnologico che per l’innalzamento della vita media. Negli ultimi 15  anni morire è sempre meno un attimo e sempre più un processo che può durare anche mesi o anni. Se chiedevi prima ai cittadini cosa ne pensavano, ognuno poteva avere la sua idea, oggi il cento per cento degli italiani sa di cosa stiamo parlando, anche se non glielo dice la televisione. Tutti hanno almeno un amico, un parente che si è trovato in questa situazione di sofferenze e, per questo, la gente è disponibile a prendere in considerazione questo tipo di legge. Poi le vicende come quella di Eluana sono state determinanti per trasformare la conoscenza in consapevolezza politica, cioè per far capire che quello che tu hai vissuto per un genitore o un amico è anche un problema della società. Nel vedere la sofferenza di Eluana tutti hanno riconosciuto il proprio vissuto”. Eppure, stando ai primi dati, sembra che il testamento biologico abbia trovato per ora pochi proseliti.  “Non abbiamo ancora dati veri e sistematici, ma è vero che è un fatto  ancora abbastanza marginale. Questo perché non è stata ancora promossa una campagna di informazione,  non esiste una banca dati nazionale e questa legge non è ancora entrata come strumento nell’ordinarietà del rapporto tra medico e paziente. E’ un tipo di legge che non basta mettere sulla carta”. Marco Cappato non ha più portato in Svizzera nessuno, dopo Dj Fabo. Non perché abbia paura visto che, per questo gesto, è a processo per istigazione al suicidio, in attesa che il Parlamento definisca una legge entro l’ottobre di quest’anno. “Continuo ad aiutare le persone che chiedono informazioni all’associazione ‘Coscioni’ ma non c’è stata più una di queste che abbia avuto bisogno di me per andarci. Se il mio aiuto fosse di nuovo indispensabile, non esiterei a fornirlo”. (manuela d’alessandro)    

Gli avvocati al cinema non sono mai Perry Mason

 

Solo chi non ha mai messo piede in un’aula di giustizia italiana può ancora credere che un avvocato somigli a quel Perry Mason che convinceva le giurie popolari americane con la sola forza della ragione.

Eppure la figura dell’avvocato ha da sempre attirato attori e cineasti di tutto il mondo.

Andando un po’ a zonzo per la sterminata filmografia troviamo negli anni ’50, dopo il citato Raimond Burr, lo straordinario Charles Laughton di “Testimone d’accusa” di Billy Wilder, mentre in Italia imperavano i legali macchietta alla Alberto Sordi o Vittorio De Sica che in “Altri tempi” di Blasetti conierà, nella sua memorabile arringa, quella storica definizione di “maggiorata fisica” per difendere la Lollo, non potendosi avvalere della codificata “minorata psichica”.

Passeranno molti anni prima di trovare nel cinema di casa nostra avvocati più seri, perché impegnati in processi realmente accaduti, come nel caso di Stefano Accorsi, alter ego di Raffaele Della Valle in “Un uomo per bene” di Zaccaro, oppure del meno edificante Marco Giuliani in “Sulla mia pelle” di Cremonini.

Frattanto negli anni ‘60 il grande Gregory Peck si porta a casa un Oscar per “Il buio oltre la siepe” di Mulligan, nei ’70 sono tutti impegnati a fare altro e negli ’80 l’idealista Paul Newman de “Il Verdetto” di Lumet si confronta con l’irresistibile Danny De Vito, matrimonialista uscito distrutto, al punto da riprendere a fumare, dall’esiziale “Guerra dei Roses”.

Nei ‘90 arrivano gli avvocati belli, ricchi e rampanti, si comincia con Tom Cruise, che schianta in controesame l’imbolsito Jack Nicholson in “Codice d’onore” di Reiner, prima di diventare “Il Socio” di Pollack, e si continua con un Richard Gere turlupinato dal proprio cliente in “Schegge di paura” di Hoblit, un Keanu Reeves che fa “L’avvocato del diavolo” nel film di  Hackford, di nuovo Richard Gere in “Chicago” di Marshall, fino al come sempre strepitoso Roberto Downey Jr. in “Il Giudice” di Dobkin.

Ma il politically correct imponeva di proporre anche figure più nobili, come il Mattew Mc Conaugey di “Il Momento di uccidere” di Schumacher, il Denzel Washington di “Filadelfia” di Demme, il Mat Damon di “L’uomo della pioggia” di Coppola, fino a Chris O’Donnell, nipote del condannato Gene Hackman in ”L’ultimo appello” di James Foley, oppure talentuosi squattrinati come il Dustin Hoffman di “Sleepers” di Levinson e il Joe Pesci di “Mio cugino Vincenzo” di Lynn, per mio conto tra le più riuscite interpretazioni delle loro rispettive carriere.

Infine, seppur tardivamente, faranno ingresso sulla scena anche avvocate del gentil sesso, eredi della grande Katharine Hepburn di “La costola d’Adamo” di Cuckor, e così, dopo Jessica Lange, lacerata dal conflitto familiare in “Prova d’accusa” di Costa Gravas,  troviamo Cher in “Presunto colpevole” di Yates, Susan Sarandon in “Il Cliente” di Schumacher e Emma Thompson in “Nel nome del padre” di Sheridan, fino a quella Julia Roberts, che pur non essendo iscritta all’albo, sarà lei a vincere da sola la causa di Erin Brokovic nel film di Soderbergh.

avvocato Davide Steccanella