giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La protesta dei lavoratori della giustizia: lo Stato ci ‘deve’ 40 milioni

I lavoratori della giustizia chiedono alla Corte dei Conti di accertare che fine abbiano fatto i 64 milioni di euro risparmiati attraverso l’introduzione del processo civile telematico (PCT). Circa 40 di questi milioni, sostengono nell’esposto presentato nei giorni scorsi all’organo contabile del Lazio, dovrebbero essere redistribuiti a chi è impiegato nei tribunali, come prevede la legge.

“Abbiamo chiesto alla Dgisia (Direzione centrale degli appalti informatici del Ministero della Giustizia) come sia stata impiegata questa somma – spiegano i rappresentanti della FLP, il sindacato che ha firmato l’esposto – ma né il suo direttore Pasquale Liccardo, né il Ministro della Giustizia Andrea Orlando hanno risposto”. Secondo i calcoli di chi protesta, spetterebbero circa 1000 euro annui a ciascun lavoratore. E, visto che nessuno ha mosso ciglio di fronte alla rimostranze, il sindacato ha deciso di rivolgersi alla Procura Generale della Corte dei Conti chiedendole di “accertare i fatti esposti; l’avvenuta violazione delle disposizioni normative e le ragioni del loro mancato rispetto; le ragioni della mancata destinazione delle somme dovute al personale dipendente; la destinazione che hanno avuto le somme risparmiate: la sussistenza di illeciti contabili”.

La legge invocata da chi ha promosso il ricorso alla Corte dei Conti prevede che “una quota fino al 30% dei risparmi sui costi di funzionamento derivanti da processi di ristrutturazione, riorganizzazione e innovazione all’interno delle pubbliche amministrazioni è destinata, in misura fino ai due terzi, a premiare il personale coinvolto”. Una norma che appare molto chiara ma molto di quello che accade attorno al PCT diventa oscuro, a cominciare dall’utilizzo dei milioni di fondi Expo destinati a digitalizzare la giustizia milanese sui quali dovrebbe indagare, oltre alle Procure di 3 città, anche la Corte dei Conti lombarda.  (manuela d’alessandro)

Cappato ai giudici: assolvetemi come dico io, se no condannatemi

 

La sfida di Marco Cappato per il diritto alla dignità della vita e della morte di Fabiano Antoniani e dei tanti senza nome che accompagna in Svizzera arriva fino a rifiutare un’assoluzione. “Se dovete assolvermi perché considerate le  mie condotte irrilevanti -  implora la Corte d’Assise, chiamata a giudicarlo per il reato di ‘aiuto al suicidio’ – preferisco che mi condanniate“.  Nelle dichiarazioni spontanee prima del verdetto,  Cappato spiega di non volere un’assoluzione ‘solo’ perché non ha avuto un ruolo nei brevi istanti dell’esecuzione del suicidio, come ipotizzato anche dalla Procura. No, lui desidera con tutte le sue forze una sentenza che lo dichiari innocente perché ha aiutato Dj Fabo a esercitare il suo diritto alla vita  e alla morte dignitosa.

La dignità è anche la parola ricorsa più spesso nella requisitoria del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Sara Arduini chiusa con le richieste di assolvere ‘perché il fatto non sussiste’ o, in subordine, di mandare gli atti alla Consulta per valutare la costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale. Anche i pubblici ministeri avanzano una richiesta paradossale alla Corte: “Se non lo assolvete, allora dovete mandare alla Procura gli atti perché indaghi la mamma, la fidanzata e perfino il portinaio che quando Fabiano andò in Svizzera gli aprì il portone”.

“Vi invito a pensare che questa norma è nata nel 1930 col Codice Rocco – argomenta Siciliano nel suo intervento ricco di riferimenti alla Costituzione e alla legislazione e giurisprudenza europee -  poco dopo la fine della prima guerra mondiale e l’influenza spagnola che aveva ucciso 700mila persone. Non c’erano gli antibiotici, non c’era il cortisone, l’età media era 46 anni. Si suppone che quella norma fosse rivolta solo ai sani che volevano suicidarsi.  Fabiano non sarebbe sopravvissuto nemmeno un’ora all’incidente, sarebbe morto per un’infezione (…). Cerco di contenermi, ma la mia mente spazia domandandosi quante siano ora le vite artificiali che siamo chiamati a difendere. Ho visto polmoni irrorarsi da soli sui tavoli, vite solo per la capacità delle cellule di moltiplicarsi. La vita è solo questo? Mi viene da dire pensando a Fabiano, che chiamo così perché ci è entrato nel cuore, con una citazione letteraria: ‘Se questo è un uomo’ e quando dico uomo intendo quello che la Costituzione ci ha insegnato a credere che sia, un uomo che ha il diritto al suo pieno sviluppo e alla dignità. E come fa a esserci una dignità senza la libertà di esercitarla? Possiamo pensare che la condizione di dolore e di negazione della dignità in cui viveva Fabiano potesse essere vita? Noi non possiamo permetterci di stabilire cos’è degno per una persona. Nella Carte Europea dei diritti fondamentali,  il diritto alla dignità viene messo per primo, quello alla vita è in ‘seconda posizione’. Nella nostra Costituzione di diritto alla vita non si parla, di questo diritto si parla solo nel codice civile e in questa norma di cui è accusato Cappato. Se Fabiano avesse avuto solo 30 secondi per muoversi liberamente,  avrebbe messo fine alla sua sofferenza da solo”.

E c’è un altro libro che Siciliano ‘sfoglia’ nel suo intervento.  “Anche nell”Utopia’ di Tommaso Moro nel 1516 si diceva che nel paese ideale c’è nella sofferenza umana un diritto a scegliere la fine, un diritto che viene riconosciuto sotto il prudente controllo del sacerdote e del magistrato.   Per le sue idee, Moro è stato giustiziato e poi anni dopo fatto santo. Non dobbiamo arrivare a ‘santificare’ Cappato , dobbiamo imparare dalla storia. Certo, sarebbe meglio se un intervento legislativo desse una certezza su per fissare i limiti al ‘suicidio assistito”. Il 14 febbraio la sentenza o l’ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte. Oggi abbiamo visto lo sguardo sgomento di una giudice a latere seguire la mamma di Fabiano, la signora Carmen, che a un certo punto ha lasciato l’aula per alcuni minuti squassata dal pianto. Non sarà facile giudicare a cuore freddo. (manuela d’alessandro)

memoria pubblici ministeri caso Dj Fabo

Lettera di Greco per salutare Ilda, ma è amaro l’addio alla Dda

“Cari colleghi, Ilda deve lasciare l’incarico da Lei ricoperto negli ultimi 8 anni alla direzione della Dda. Il livello raggiunto dalla Dda di Milano è altissimo, sia per organizzazione di lavoro sia per innovazione giuridica e rappresenta un irrinunciabile patrimonio investigativo e culturale. Il rigore professionale, la riservatezza, la velocità nell’assumere decisioni e la conoscenza del fenomeno mafioso sono la cifra dell’impegno di Ilda che continuerà a garantire con la sua presenza attiva in Ufficio”.

Il procuratore di Milano Francesco Greco prova ad addolcire l’ultimo giorno alla guida della Direzione Distrettuale Antimafia di Ilda Boccassini, elogiandola pubblicamente in una lettera inviata a tutti i pubblici ministeri.

“Stiamo parlando del patrimonio che forma il dna della Procura  – prosegue  nella missiva – unitamente a tutti gli altri settori che rendono l’Ufficio un”eccellenza’. Ilda, con la sua straordinaria competenza, passione e dedizione al lavoro contribuisce a far maturare l’orgoglio dell’appartenenza a una storia esemplare nell’affermazione della legalità e della tutela  dei diritti: quella che caratterizza appunto la Procura di Milano”.

Ma il magistrato grintoso protagonista di tante inchieste che in questa giornata di sole lascia la Procura è una donna amareggiata e arrabbiata il cui futuro appare molto incerto.

Una frustrazione emersa in modo evidente nelle settimane scorse col suo rifiuto all’offerta di Greco di restare nella Dda per occuparsi delle Misure di Prevenzione, i sequestri dei beni per colpire i patrimoni dei presunti mafiosi.  Un incarico che sembrava la ‘buonuscita’ ideale ma Boccassini avrebbe preferito conservare la gestione del pool antimafia, anche senza esserne più formalmente la leader perché le norme che regolano la magistratura impongono la sua decadenza. Invece è stata scelta Alessandra Dolci come nuovo procuratore aggiunto della Dda che perderà anche Paolo Storari, il ‘pupillo’ di Ilda, magistrato giovane e autore di alcune delle più importanti indagini negli ultimi  anni sul fronte della criminalità organizzata, pronto a cambiare dipartimento.

Cosa farà Boccassini nei due anni che la separano alla pensione? Greco auspica una sua “presenza attiva nell’Ufficio” ma non si capisce come si declinerà. Né se lei vorrà declinarla in qualche modo.  “La responsabilità di noi colleghi anziani (Ilda, Alberto, il sottoscritto, nonché il rinnovato consiglio degli aggiunti) – continua il capo nella missiva – sarà quella di guidare questo processo con l’esperienza e la necessaria condivisione delle scelte”. Ilda ne avrà voglia? Di fatto il ritorno alla veste di semplice pm è un po’ come la retrocessione di un generale a soldato. Il “sarà un’ottima annata!” con cui Greco conclude la lettera per incitare i colleghi a impegnarsi nella “ristrutturazione” dell’Ufficio sarà suonato quasi beffardo alle sue orecchie.  Vedere Ilda marciare confusa nella truppa ora come ora è difficilmente immaginabile. Tanto che non è assurdo immaginare anche un gesto clamoroso come potrebbero essere le dimissioni. (manuela d’alessandro)

Le ragioni giudiziarie di Maroni per puntare a Palazzo Chigi

 

E se Roberto Maroni avesse rinunciato alla Lombardia pensando a Palazzo Chigi proprio a causa del suo processo (le famose “ragioni personali”)?.

Alcuni indizi cominciano a mettersi in fila. Nell”intervista di oggi  al ‘Foglio’ il Governatore spende  parole accorate per Giuseppe Orsi e Mattia Palazzi, l’ex ad di Finmeccanica e il sindaco di Mantova usciti indenni con tante scuse dalle rispettive  vicende giudiziarie  dopo “avere subito un’inacccettabile aggressione mediatica”. Il tarlo giudiziario sembra avere lavorato dentro di lui in questi ultimi anni, considerando anche che l’inchiesta ha svelato aspetti molto privati della sua vita, come la relazione con una delle collaboratrici che avrebbe favorito.  Non a caso ha citato Palazzi, pure lui al centro di un presunto ‘sex gate’.  

Sempre oggi, il Tribunale ha cancellato due udienze previste a febbraio (uffcialmente per l’incombere di altri processi con detenuti, ma non si esclude una pax elettorale tra magistrati e difesa) fissando la requisitoria al  22 marzo e le discussioni delle difese al 12 e al 19 aprile, tutto dopo il voto. Questo significa che la sentenza del processo iniziato – tenetevi forte -  il primo dicembre 2015 e proseguito con una lentezza sfinente arriverà a nomina del premier abbondantemente avvenuta. A quel punto, dando retta agli scenari mediatici non confermati dai protagonisti, il leghista potrebbe essere il nuovo capo del Governo.

Maroni avrebbe accettato il rischio di rinunciare alla certezza di un secondo mandato lombardo ponderando proprio le conseguenze di un eventuale epilogo a lui sfavorevole del processo, peraltro improbabile data l’assoluzione per gli stessi fatti dell’ex dg di Expo Malangone in appello, ma la paura può tutto. L’accusa per lui è di avere esecitato pressioni illecite  finalizzate a  far ottenere un lavoro e un viaggio a Tokyo a due sue ex collaboratrici, una delle quali presunta amante.

E qui entra in gioco la legge Severino che prevede la decadenza di un amministratore pubblico condannato anche solo in primo grado, in questo caso per il reato di induzione indebita. Se fosse stato rieletto Governatore avrebbe dovuto alzarsi subito dalla poltrona. La decadenza riguarda però solo gli amministratori locali, non i parlamentari e il premier che sono costretti a lasciare le cariche solo al termine dei tre gradi di giudizio. Un Maroni a Palazzo Chigi rimanderebbe di un paio d’anni il suo eventuale problema con la giustizia. (manuela d’alessandro)

La replica del ‘Corriere’: nessuna bufala, raccontata una storia vera

Riceviamo e pubblichiamo la replica dei colleghi del Corriere Gianni Santucci e Andrea Galli al post firmato da Frank Cimini ‘Bufale, giornali e apparati bisognosi di gloria e di soldi’.

“Per le opinioni del signor Cimini non abbiamo alcun interesse. Il post sul nostro articolo pubblicato sul Corriere della Sera contiene però affermazioni scorrette e diffamatorie, alle quali siamo obbligati a rispondere.

Primo. La bufala è una notizia falsa. Nulla di quanto affermato nell’articolo è falso. Dunque il signor Cimini, che di professione ha fatto il giornalista, non dovrebbe usare le parole a sproposito. Bufala, in questo caso, è un termine utilizzato a sproposito (e in modo offensivo).

Secondo. Il signor Cimini parla di “molto presunto attentato”. La storia è diversa: abbiamo raccontato che quella sera, in poche ore, si è verificata una serie di fatti che ha determinato uno scenario di alto rischio, come mai era avvenuto in Italia nel recente passato. Dato che facciamo i giornalisti, questa è una notizia.

Terzo. Il signor Cimini afferma che “uno dei tre “forse” in passato avrebbe avuto un contatto con un sospetto fondamentalista”. Nell’articolo non usiamo il dubitativo “forse”, perché quel contatto è esistito ed è documentato (è stato l’elemento chiave che ha fatto scattare l’allerta). Il “fondamentalista” non è “sospetto”, perché è stato arrestato in Francia ed è tutt’ora detenuto, dopo oltre un anno. Forse una più attenta lettura dell’articolo sarebbe stata opportuna, ma non ci permettiamo di dare consigli al professor Cimini.

Quarto. Il signor Cimini afferma: “Oggi giorno successivo allo scoop il quotidiano di via Solferino non ha scritto una riga. In pratica c’è la conferma della bufala”. Perdono, forse non conosciamo importanti regole del giornalismo di cui il professor Cimini è invece depositario. Domanda: bisogna scrivere un secondo pezzo, il giorno dopo l’uscita di un articolo, per certificare che quel primo articolo non sia una bufala? Se è così, grazie dell’insegnamento, professor Cimini. Poveri ingenui, pensavamo che fare verifiche puntuali e accertare la veridicità di tutte le informazioni contenute in un articolo fosse sufficiente.

Quinto. Bisogna soffermarsi sull’affermazione: “nel nostro paese ci sono in materia di terrorismo e affini apparati investigativi enormi, spropositati rispetto alle necessità”. Ripetiamo: non ci interessano e non entriamo nel merito delle opinioni del signor Cimini, ma non accettiamo che su quell’affermazione si costruisca un ragionamento nel quale veniamo inseriti come “complici” al servizio di apparati dello Stato. Purtroppo svolgiamo il nostro lavoro a un livello molto più basso: abbiamo saputo una notizia, l’abbiamo verificata cercando informazioni e conferme da più e diverse fonti nell’arco di quattro giorni, infine l’abbiamo pubblicata. Dunque, professor Cimini, per cortesia ci tenga fuori dalle sue raffinate e approfondite analisi”.

 

Andrea Galli e Gianni Santucci, cronisti del Corriere della Sera