giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

“Gli ideali della Costituzione traditi dalla realtà, ma sono vivi”

Marta Cartabia è una giudice costituzionale con lo sguardo dolce. Non si vede subito perché quando entra nella Rotonda del carcere di San Vittore, una specie di piazza che segna un confine tra il fuori e il dentro, ha l’espressione ‘istituzionale’ di chi viene accolta con tutta la solennità del caso. Tutti in piedi e inno nazionale cantato dal coro multietnico dei detenuti per salutare la vicepresidente della Corte Costituzionale nella seconda tappa, dopo quella di Rebibbia, del viaggio intrapreso dai giudici custodi dei nostri valori all’interno degli istituti di pena. “Sono molto emozionata”, confessa, e poi via con la lezione di diritto incentrata sul ‘pieno sviluppo della persona umana’ in questo “che non è un carcere qualunque, mi ha sempre colpito la sua presenza nel cuore della città, da quanto portavo i miei figli a scuola, ci passavo davanti e pensavo a come si viveva qua dentro”. Nell’antichità, “la pena più grave, più della pena di morte, era essere esiliati dalla città, ma voi non lo siete, la Costituzione è scritta anche per voi perché è nata dalla sofferenza dei padri costituenti che sono stati in carcere e hanno voluto con chiarezza indicare nell’articolo 27 la finalità di rieducazione della pena”.

Gli uomini e le donne seduti qui, un centinaio,  l’aspettavano da mesi dopo avere studiato come matti guidati dal professore della Cattolica Michele Massa e dal direttore Giacinto Siciliano. Sono preparatissimi, ma non tocca a loro essere interrogati. La studentessa è Marta: a volte, con quello sguardo dolce, dice cose dirompenti. “Perché la saggezza della Costituzione fa così fatica ad essere attuata nella vita quotidiana?”, domanda un detenuto straniero. “Il fatto che voi percepiate una distanza tra le parole della Costituzione e la realtà non significa che quelle parole non siano vere. Sono gli ideali a cui continuamente aspiriamo anche se la realtà li contraddice, a volte duramente. Come tutte le cose della vita, hanno un’attuazione inesauribile. Uno per esempio non può dire cos’è l’amore per la sua donna, lo impara continuamente. L’ideale è lì per richiamare la possibilità del cambiamento. Nelle questioni legate agli alti valori morali, nulla può mai essere dato per scontato, si fa un passo avanti e uno indietro, non è come nella scienza”. “E’ costituzionale – punge Loris – la potenza che hanno gli inquirenti di distruggerti la vita con la carcerazione preventiva e poi magari si scopre che sei innocente?”. “Molti di voi sono qui non per scontare la pena, ma in custodia cautelare – empatizza lei – immagino che essere strappati da una vita normale e trovarsi improvvisamente in una dimensione così diversa possa essere uno choc che richiede un suo tempo di interiorizzazione. La legge prevede delle garanzie per attuare il principio di non colpevolezza, come il fatto che l’autorità giudiziaria debba autorizzare la carcerazione preventiva. Ogni decisione ha la sua possibilità di appello”. Antonio chiede: “E’ costituzionale la recidiva che ti condanna non per il reato ma per quello che sei?”. “La recidiva tiene una specie di traccia del tuo percorso di vita, ma non riguarda le caratteristiche della persona – ribatte la giudice – la Consulta per esempio ha giudicato incostituzionale l’aggravante della clandestinità perché riguardava la persona. In ogni caso, si possono contemperare le aggravanti con le attenuanti, non bisogna guardare solo alla recidiva ma anche al resto per non trasformare la pena in un tratto identitario”. Marco provoca “Come si è evoluto il concetto di umanità della pena negli ultimi 70 anni se nel 2018 mi trovo un parassita nel letto durante la detenzione?”. La vicepresidente tentenna: “Spesso chi gestisce questi luoghi  deve fare i conti con la ristrettezza di mezzi e personale”.  ”Perché i giudici prendono decisioni diverse su casi simili?”, è l’affondo di Davide. “Capisco possa sembrare ingiusto, ma in realtà ogni decisione tiene conto della specificità del caso, ma con dei limiti in modo che la discrezionalità non diventi disparità. La Costituzione guarda con sospetto agli automatismi”. L’idea di giustizia spunta da tutte le domande, l’idea che la promessa della Costituzione nei fatti venga tradita e Cartabia fa capire che sì, a volte è proprio così, ma si può cambiare approfittando della vitalità di quella vecchia carta. Massimo: “Non sono ingiuste le pene pecuniarie nei confronti di chi non è in grado di pagarle?”. “Si possono creare, come in altri ordinamenti, meccanismi in modo che la pena possa adeguarsi sia al reati che alle condizioni economiche della persona. Quella che qualcuno è una pena enorme, per altri è la mancia a una cameriera”.   “Nel centro clinico – racconta un detenuto – vedo ultra – ottantenni con malattie incurabili. Come si concilia con la Costituzione?”. “Nessuno deve morire in carcere, le condizioni dei detenuti non devono mai diventare tali da toccare la soglia del trattamento disumano, bisogna sempre vigilare con attenzione che ciò non accada. Spesso si sente dire che il tasso di civiltà di un Paese si misura su come vengono trattate le persone più vulnerabili e quando si è privati della libertà personale si è in una condizione di fragilità. Su come trattiamo i detenuti si misura il tasso di civiltà della nostra Repubblica”. Applausi, abbracci coi detenuti che le regalano una felpa del reparto ‘La Nave’, simbolo del loro viaggio,  e ovazione riservata alle rock star per Marta Cartabia, che è venuta qui ad ammettere con dolcezza quanto la Costituzione sia ancora una bellissima incompiuta. “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale – promette – mi auguro che gli ideali della Costituzione possano farvi compagnia in questo vostro viaggio”.

(manuela d’alessandro)

Niente diritto di sciopero se l’avvocato lo comunica via mail

Cosa c’è di più autentico, di una Pec, ovvero un messaggio certificato di posta elettronica, di cui le moderne tecnologie garantiscono “al di là di ogni ragionevole dubbio” l’identità del mittente e del destinatario, nonché l’avvenuta consegna?

Nulla, si direbbe: tant’è vero che una cospicua serie di atti giudiziari vengono notificati ai difensori con questo strumento. Bene, è il progresso! Peccato che lo stesso non valga nella direzione opposta. E che si sia recentemente arrivati al paradosso di un cinquantenne milanese, imputato di truffa, che si è visto rifilare una condanna definitiva perché il suo avvocato il giorno dell’udienza d’appello era sceso in sciopero aderendo all’astensione decida dall’Unione delle camere penali, dandone la comunicazione alla cancelleria della Corte: ma lo aveva fatto in ritardo e soprattutto utilizzando la Pec. Per la Cassazione, quella mail è carta straccia, perché “nel processo penale alle parti private non è consentito effettuare comunicazioni, notificazioni ed istanze mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”. E’ un orientamento già espresso dalla Cassazione in altre sentenze, ma che in questo caso viene portato alle estreme conseguenze, perché di fatto – rifiutando la mail inviata dall’avvocato – l’apparato giudiziario da un lato non riconosce il diritto di sciopero del difensore, e dall’altro rende definitiva la condanna di un cittadino che ha avuto modo di difendersi solo in primo grado. 

Il pronunciamento della Cassazione è espresso nella sentenza 44236 di quest’anno, depositata dalla Seconda sezione penale il 4 ottobre scorso. L’imputato, M.F., era accusato di avere “bidonato” un concessionario di motociclette, facendosi consegnare una due-ruote e sparendo poi nel nulla senza pagare. Per questo nel luglio 2015 era stato condannato con rito abbreviato per truffa, ma contro questa sentenza aveva fatto ricorso in appello. L’udienza in camera di consiglio viene fissata per il 22 marzo 2017. Ma all’inizio di marzo l’Unione delle camere penali indice cinque giorni di sciopero per contrastare il decreto legge del ministro Andrea Orlando, in particolare contro la modifica dei termini di prescrizione e l’ampliamento degli interrogatori per videoconferenza: astensione da tutte le udienze (tranne quelle con imputati detenuti) dal 20 al 24 marzo. Il 21, alla vigila dell’udienza, l’avvocato di M.F. comunica alla cancelleria della Corte d’appello che intende aderire all’iniziativa dell’Ucpi.

La mattina successiva, il presidente della sezione davanti alla quale è chiamato il processo decide: adesione irrituale, il processo si fa lo stesso. E la condanna inflitta in primo grado viene confermata integralmente. L’imputato non ci sta, e ricorre in Cassazione spiegando di non avere avuto modo di difendersi. Niente da fare: per la Cassazione “la comunicazione del difensore di fiducia di voler partecipare all’astensione era avvenuta tramite Pec, circostanza che legittimava la Corte a non tener conto della richiesta di rinvio”. La condanna diventa definitiva, e per soprammercato oltre alle spese processuali M.F. viene condannato anche a pagare “la somma di duemila euro alla cassa delle ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità”.  (Orsola Golgi)

Il post numero 1000 di Giustiziami

Giustiziami compie 1000 articoli. Guadagni, zero, anzi siamo in perdita perché ogni anno paghiamo ad Aruba la tassa di registrazione. Tempo ed energie, spesso ‘serali’, che si aggiungono a quelli dedicati alla ricerca delle notizie che già occupa le nostre vite professionali. Rischi di querela senza nessun editore che ce le paghi anche se finora gli unici a farci causa sono stati quelli del nostro ente pensionistico Inpgi (a proposito, per i tanti che ci chiedono: la prima udienza sarà il 4  febbraio a Roma).

E allora: chi ce lo fa fare? Noi ci divertiamo tantissimo, e la verità è che continuiamo a scrivere per questo. Cerchiamo di farlo con professionalità. Ce lo possiamo permettere perché un lavoro già ce l’abbiamo e ci togliamo lo sfizio di ospitare anche colleghi che ci propongono pezzi ‘sgraditi’ alle loro testate per varie ragioni. Qui c’è posto per tutti, purché le storie siano ben documentate e i colleghi conoscitori delle ‘regole’ della giudiziaria. Una delle cose che ci rende più orgogliosi è essere riconosciuti da quella comunità che di giustizia ci vive: magistrati, avvocati, investigatori, consulenti, cancellieri. A voi che ci avete letto e continuate a leggerci e commentarci, amici, curiosi o anche ‘odiatori’, il nostro grazie infinito.

Manuela D’Alessandro e Frank Cimini

ps. un ringraziamento speciale ad alcune persone che ci hanno sostenuto sin qui in modo particolare o hanno contribuito, nelle fasi iniziali, alla creazione del blog: Jari Pilati, Igor Greganti, Cristina Manara, Luca Fazzo, gli amici de ‘Gli Stati Generali’, Jacopo Barigazzi,  Gianni Barbacetto, i ‘nostri’ avvocati Davide Steccanella, Eugenio Losco, Mauro Straini, Mirko Mazzali (con loro al nostro fianco non temiamo nessuno!) e a tutti gli altri che ogni giorno ci danno spunti per il nostro lavoro.

Una denuncia al giorno contro i medici, quasi tutte archiviate

Se lo dice quella che, con ironia, si definisce “il maggior persecutore di medici degli ultimi anni”, c’è da riflettere. Le Procure, e in particolare quella di Milano, città che ha fama di ospitare poli sanitari di alto livello, sono assediate da denunce pretestuose contro i medici. Una “patologia” arriva a definirla Tiziana Siciliano che, tra le ragioni, ci mette anche il ‘divieto di morire’, categoria culturale che appartiene alla nostra epoca. “Ogni giorno che Dio manda in terra c’è una denuncia contro un medico -  rivela il procuratore aggiunto milanese dal palco di un convegno in materia di responsabilità nelle professioni sanitarie in corso a Palazzo di Giustizia – nel 2017 abbiamo iscritto a Milano circa 300 fascicoli su presunte colpe mediche. Buona parte di queste denunce ha carattere strumentale per fare pressioni sui medici in vista di richieste di risarcimento in sede civile”. Ma c’è anche altro a spingere i cittadini a rivoltarsi contro chi li ha curati o dovrebbe averlo fatto. “Altre denunce vengono sporte sull’onda dell’emotività del dolore, tenendo presente che siamo nell’epoca del ‘divieto di morire’. Parlo di cose che mi sono successe, è arrivata una denuncia per la morte di un paziente di 97 anni dai suoi familiari”. Poi c’è Internet, ricorda Siciliano, con Wikipedia che da’ a tutti la patente di medici e li spinge a credersi vittime di errori.  “Non ci possiamo permettere questo carico insensato – sostiene il magistrato che ha rappresentato l’accusa anche nel caso della clinica Santa Rita – la massima parte di queste denunce finisce con un’archiviazione che da scrivere può essere anche più complicata di un capo d’imputazione. Per arrivarci bisogna comunque fare costose consulenze che ti fanno entrare in un terreno scivolosissimo, con termini che si fa fatica a capire. Spesso poi arriva l’opposizione all’archiviazione e qui forse qualche  responsabilità ce l’ha anche la classe forense. Fascicoli di questo tipo sono per noi delle rogne pazzesche”. Al momento, inoltre, “non sono state ancora fissate le linee guide sulla responsabilità dei medici che dovrebbero essere emanate in base alla legge Gelli del 2017. Sarebbe cosa buona farlo per eliminare le incertezze”. (manuela d’alessandro)

Perché il sindaco di Riace non andava arrestato

Dico subito che desta parecchie perplessità la lettura dell’ordinanza (132 pagine) con la quale il gip presso il Tribunale di Locri ha disposto l’arresto (domiciliare) del sindaco di Riace Domenico Lucano, noto alle cronache per il costante impegno nell’accoglienza di cittadini extracomunitari.

La richiesta di misura cautelare del pm risultava datata 6 luglio e configurava a carico del sindaco (e di altre 30 persone) una moltitudine di reati rubricati dalla lettera A alla lettera Y, e che andavano dalla associazione a delinquere al peculato, dalla truffa ai danni dello Stato per svariati milioni al falso e dall’abuso d’ufficio alla concussione.

Delitti per i quali, oltre alla misura cautelare, il medesimo pm richiedeva altresì il “sequestro preventivo per equivalente delle somme presenti sui conti degli indagati.”.

Il primo dato che balza all’occhio dalla lettura dell’ordinanza  è la sonora “bocciatura” della lunga indagine (18 mesi) della Guardia di Finanza e avente ad oggetto, si legge: “l’iter di ottenimento e i meccanismi di gestione di rilevanti somme di denaro pubblico ottenute per organizzare la permanenza sul territorio comunale di migranti”.

Questo perché al termine dell’esame degli atti, il gip ha ritenuto del tutto insussistenti gli indizi a sostegno di tutte le imputazioni, eccezion fatta che per le ultime due, invero minimali, e di cui si dirà.

Si legge infatti nel provvedimento di “vaghezza e genericità al capo di imputazione” e “riferimenti a collusioni e mezzi fraudolenti che si risolvono in formule vuote prive di tipicità” (pag. 37), di “impossibilità per il gip di sostituirsi al pm per individuare collusioni trattandosi di operazione impedita dai più elementari principi processual-penalistici” (pag. 38), di “considerazioni addotte a sostegno della fondatezza quantomeno laconiche” (pag. 41), di “inattendibilità del denunciante Ruga” (pag. 46), di “alcun ingiusto vantaggio arrecato dal Lucano agli enti attuatori dei servizi” (pag. 123), fino a leggersi espressamente (pag. 123), e con riferimento alla più grave accusa di associazione a delinquere, che “i programmi perseguiti dagli indagati non possono definirsi illeciti, né si sono tradotti in condotte penalmente rilevanti”, e che, per quanto riguarda le specifiche condotte attribuite al sindaco (pag. 125) le stesse “erano dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita”.

Ciò nonostante il gip ha ugualmente applicato la medesima misura coercitiva richiesta dal pm per ben 9 reati (pag. 22), per le sole due ipotesi finali rubricate alle lettere T e Y.

La prima (T) è l’accusa (riqualificata dal GIP come art. 353 bis Cp rispetto al reato di turbativa d’asta indicato dal PM) di avere affidato il servizio di pulizia della spiaggia a due cooperative sociali prive del requisito dell’iscrizione all’albo regionale, e la seconda (Y) è quella di avere concorso nel 2017 con una cittadina etiope in un falso matrimonio con il fratello per consentire a quest’ultimo l’ingresso nel nostro paese per coniugio, fatto peraltro non verificatosi per il di lui intervenuto arresto nel paese di origine.

Sul punto si legge da pagina 69 in avanti un lungo resoconto di svariate intercettazioni che attestano il coinvolgimento del sindaco anche in altri due “matrimoni di comodo”, il primo dei quali tra tali Giosi (cittadino italiano) e Sara, e sempre per le medesime finalità.

A sostegno dell’arresto, motivato, si legge, dal concreto pericolo che il sindaco, se libero, possa reiterare analoghe condotte di reato, scrive il gip (pag. 121) di “naturalezza a trasgredire norme civili” e di “disarmante spigliatezza con la quale il Lucano, nonostante il ruolo istituzionale rivestito, ammetteva pacificamente e più volte ad un nutrito gruppo di interlocutori di essersi adoperato in prima persona per consentire alla complice il matrimonio con il fratello”, stigmatizzandone (pag. 125), il “ricorso a condotte non solo penalmente, ma anche moralmente riprovevoli (per quanto dal suo punto di vista finalizzate a garantire a soggetti svantaggiati la possibilità di permanere in Italia o di raggiungere il Paese per qui godere di un migliore regime di vita)”, per concludere (pag. 126) che “l’indagato vive oltre le regole che ritiene d’altronde di poter impunemente violare nell’ottica del fine giustifica i mezzi, dimentico però che quando i mezzi sono persone il fine raggiunto tradisce tanto paradossalmente quanto inevitabilmente quegli stessi scopi umanitari che hanno sorretto le proprie azioni”.

A corollario di ciò il gip esclude (pag. 126) “tranquillamente che in sede di prevedibile condanna possa essergli concesso il beneficio della sospensione condizionale”.

Ora, non si discute sulla ritenuta sussistenza indiziaria di quegli unici addebiti usciti “superstiti” dalla falcidia del gip, ma è proprio questo dato che avrebbe dovuto indurre detto gip a considerare che una misura cautelare richiesta per chi si sarebbe, in ipotesi, reso responsabile di tutti (o quasi) i reati ricompresi nell’intero codice penale, non dovrebbe trovare uguale attuazione anche per chi invece può avere al massimo violato alcune regole per finalità umanitarie.

Ovviamente sarà il processo di merito a stabilire da quale parte stanno i torti e le ragioni e se il predetto sindaco in caso di condanna dovrà o meno finire in carcere, né questa è la sede per disquisire su ipotesi di disobbedienza civile o per difendere scelte politiche e sociali di un sindaco impegnato in prima linea in un territorio a dir poco “difficile” (scelte che peraltro, io condivido in pieno), ma la lettura di quella ordinanza e di alcune considerazioni soggettive che non dovrebbero competere a un giudice penale, quali “moralmente riprovevoli” o “tradimento di scopi umanitari”, non può non destare allo stato, e lo si ripete, parecchie perplessità negli addetti ai lavori.

avvocato Davide Steccanella