giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Per la prima volta i nomi e le storie dei suicidi in carcere entrano in tribunale

Si può dire che per la prima volta i suicidi in carcere entrino in un tribunale. Uno a uno, coi loro nomi e cognomi, e anche col loro luogo di morte, che è uno e tutti perché ci si uccide in tutte le gabbie italiane, da Aosta a Messina, ed è già successo 72 volte nel 2022, record del millennio.

Ecco che sotto le fotografie della mostra ‘Disagio dentro’, scattate dai detenuti e dagli agenti, si appiccicano le 72 identità cancellate e alcune storie piccole ed enormi perché raccontano tanto di come stiamo nella parte più scura della nostra coscienza democratica. Da  Giacomo Trimarco, il più giovane coi suoi 21 anni, che è caduto inalando il gas butano a San Vittore, dove non sarebbe dovuto stare perché, malato psichiatrico, era destinato a un luogo di cura ma non c’era posto, a Donatella Hodo, la ragazza che prima di farlo ha chiesto perdono all’amore suo e per la cui morte ha invocato a sua volta perdono il giudice della Sorveglianza Vincenzo Semeraro che l’ha seguita per anni nel dentro e fuori per droga ma l’ha vista uscire infine dentro a una bara.

“Vanno guardate con l’emozione dell’uomo che guarda l’uomo”

Non è stato facile portare questa esposizione nel tribunale di Milano perché sono state poste molte domande da parte di chi ospitava, la magistratura, a chi l’ha organizzata, in prima fila la responsabile per il carcere della Camera Penale, Valentina Alberta. Perché questa mostra scava e raschia il senso di colpa di tutti come ha ammesso con coraggio Giovanna Di Rosa, presidente della Sorveglianza milanese. “Ha un grande valore simbolico perché viene fatta qui, dove si amministra la giustizia e si decidono le pene e come eseguirle. Va guardata lasciandosi andare al senso di umanità perché le foto e le storie grondano umanità. Sono rimasta molto colpita leggendo nomi e storie perché significa personalizzare e dare un senso ai numeri. Vanno guardate e lette lasciandosi andare all’emozione dell’uomo che guarda l’uomo”.

La giudice Ombrettta Malatesta della giunta locale dell’Anm: “E’ importante che queste storie siano liberamente visitabili nel tribunale di Milano e che la magistratura prenda coscienza del problema e anche che ci sia una sensibilizzazione diretta della popolazione civile”.

Dice il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vinicio Nardo, durante la presentazione, che “non era scontato che avvocati e magistrati facessero insieme questa mostra. Per tanto tempo non ci siamo fatti carico dell’esecuzione della pena ma solo della celebrazione dei processi. Le foto del carcere servono a favorire questa commistione culturale tra il prima e il dopo ma non a farci sentire più buoni perché il carcere è più di quello che vediamo in queste immagini e, se vogliamo bere la cicuta, dobbiamo berla fino in fondo”.

Allora, esorta il presidente della Camera Penale, Andrea Soliani, è venuta l’ora di “portare il carcere all’esterno” per mostrare il suo corpo ferito a morte.

Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, riflette su alcuni reclusi, in particolare. “Mentre parliamo, abbiamo 12353 persone in carcere con una condanna inferiore ai 4 anni e 1419 con una inferiore a un anno per le quali attivita rieducativa è simbolica perché in un anno non riesci a fare niente. Situazioni che interrogano il senso costituzionale della pena. Bisogna allora pensare a strutture di controllo e supporto che intervengano in modo diverso dal carcere”.  Fino al 27 novembre è possibile visitare i morti del carcere in tribunale e dargli una carezza ma darla anche alla loro speranza che è, nonostante tutto, nelle mani tese accolte dagli obbiettivi di chi ha scattato. (manuela d’alessandro)

Il Grande Vecchio del terzo millennio è un gatto

Alle ore 16,38 del 7 agosto 2020 in camera da letto per un minuto e 14 secondi Dana Lauriola parla con il gatto. A scriverlo è la Digos di Torino in una annotazione allegata agli atti dell’inchiesta sul centro sociale Askatasuna dove si contesta il reato di associazione sovversiva che poi il Riesame ha modificato in associazione per delinquere. Le difese degli indagati hanno presentato ricorso in Cassazione che sarà discusso nell’udienza del prossimo 24 novembre.
Dana Lauriola, già condannata a due anni di reclusione senza sospensione della pena (infatti è stata in galera) per aver usato il megafono durante una manifestazione in autostrada scrive su Facebook: “Intercettazioni nella mia camera da letto. La sintesi in fondo di questo audio ci restituisce la pericolosità del soggetto coinvolto. Se non facesse piangere farebbe molto ridere. Comunque, scherzi a parte, si tratta di una volazione così forte della propria intimità, è un qualcosa che non dovrebbe essere permesso. Ma a Torino, si sa, tutto è possibile”. A Torino va ricordato il bruciacchiamento di un compressore era stato trattato con riferimenti espliciti nero su bianco al pari del caso Moro. Accusa di terrorismo azzerata da Riesame e Cassazione. Ma intanto gli indagati si perdevano la scabbia in carcere.
L’operazione era stata denominata dalla molto solerte Digos col termine “Sovrano”, alludendo a Giorgio Rossetto, uno dei leader del movimento contro il treno dell’alta velocità. “Ma secondo noi – chiosa un legale della difesa – il vero Sovrano è il gatto di Dana”.
Il gatto di Dana si chiama Tigro. Non si riesce a capire quali spunti investigativi abbia tratto la polizia dalla “conversazione” tra Dana Lauriola e il micio. E si fatica a comprendere quali motivi abbiano indotto la procura ad allegare agli atti dell’inchiesta l’annotazione della Digos. Bisognerebbe anche chiedere al Consiglio Superiore della magistratura se abbia qualcosa da dire sul comportamento dei magistrati che non depone sicuramente a favore del loro equilibrio mentale. Probabilmente più che andare in Cassazione il prossimo 24 novembre bisognerebbe rivolgersi a una medico, ma uno di quelli molto bravi, per dirimere la questione.
Al di là dei sorrisi amari che derivano da questa vicenda a dir poco allucinante andrebbe affrontato un problema concreto del quale sia la politica sia i mezzi di informazione non si vogliono occupare. Il fatto è che abbiamo in questo paese apparati antisovversione assolutamente spropositati e che costano un sacco di soldi (quanto pare impossibile sapere) rispetto alla bisogna. La ragione è essenzialmente la mancanza di materia prima. Tanto è vero che la stragrande maggioranza di questo tipo di indagine è da tempo di tipo preventivo. Con scarsi risultati perché dopo la galera gratis di molti indagati soprattutto anarchici poi fioccano le assoluzioni come recentemente a Roma per il caso Balystrok. Ma arrivare a intercettare un gatto appare francamente al di là del bene e del male.
(frank cimini)

Legali: come limitare danni di pessima legge anti rave

Se davvero l’obiettivo della nuova norma incriminatrice di cui all’art. 434 bis
c.p. non è quello di impedire l’occupazione di scuole e università, di criminalizzare le lotte sindacali, di evitare manifestazioni di dissenso nella
più grande crisi economica di sempre; se davvero l’obiettivo non è quello di intercettare le telefonate di tutti i cittadini che possano anche solo
ipoteticamente essere collegati con situazioni di questo tipo; se davvero l’obiettivo del primo atto normativo urgente del Governo è quello, piccolo
piccolo, di impedire i rave party per tutelare la salute dei partecipanti, ci permettiamo di suggerire come modificare la disposizione in sede di
conversione per renderla idonea allo scopo.
All’art 633 c.p. è aggiunto il seguente comma:
“Se il fatto è commesso da più di 50 persone e l’invasione è realizzata per
effettuare un evento musicale senza le previste autorizzazioni, la pena per i promotori o gli organizzatori è della reclusione da tre a sei anni e la multa
da euro 1.000 a euro 10.000 quando ne derivi un pericolo per l’ordine
pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”.
Così riscritta la disposizione sarebbe effettivamente applicabile solo ai rave illegali (“eventi musicali” in luogo di “raduni”), in presenza di effettiva e non
solo potenziale messa in pericolo dell’ordine pubblico o della incolumità pubblica o della salute pubblica (“quando ne derivi un pericolo” in luogo di
“quando può derivare un pericolo”). E solo nei confronti degli organizzatori.
Resterebbe una norma espressione della peggiore politica criminale, ma
almeno non si presterebbe a forzature antidemocratiche e incostituzionali.
avv. Eugenio Losco avv. Mauro Straini