giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Il divieto di andare in pasticceria per la ragazza arrestata nel corteo per Gaza

 

Può un bignè alla crema essere pericoloso? Siamo sulla linea del surreale dove spesso le leggi e la giustizia galleggiano. La Questura di Milano ha inflitto un Daspo urbano a una ragazza arrestata, e scarcerata dopo la direttissima, per resistenza a pubblico ufficiale nel  corteo in solidarietà alla popolazione di Gaza del 22 settembre scorso a Milano.

Tra le prescrizioni ce n’è una molto curiosa. Non potrà frequentare per due anni né “stazionare” vicino a ristoranti, bar, pizzerie, gelaterie, pasticcerie e locali presenti in più zone di Milano e per un anno non potrà accedere, né avvicinarsi alla stazione Centrale, né ai treni né alla metro, e alle aree limitrofe. “Un provvedimento solo punitivo che non alcuna attinenza coi fatti contestati” dice Mirko Mazzali, il legale della ventunenne.

L’unico precedente per la giovane frequentarice del centro sociale Lambretta è per il reato di invasione dell’ex cinema Splendor. Non esattamente una professionista del crimine, insomma

Ora, il diktat di non gustarsi un pasticcino al tavolo non è un’invenzione della Questura ma una possibilità offerta dalle norme che disciplinano il Daspo e che individuano anche le pasticcerie e gelaterie come luoghi di aggregazione e quindi potenzialmente scenari di turbolenze.

A memoria non ricordiamo manifestazioni che si infiammano da una scintilla sprigionata da un babà con o senza capocchia.

(manuela d’alessandro)

Il QR sulla porta, l’ultima frontiera per prendere appuntamento col magistrato

Uno dei problemi che più incidono sulla salute mentale degli avvocati, oggetto di frustrazioni e lamentele, sono le ore di attese davanti alle porte dei pubblici ministeri per essere ricevuti e ottenere un colloquio.

Se un tempo, ricordano i veterani, c’erano rapporti di confidenza e confronto assidui tra legali e magistrati, adesso è diventato  più difficile avere la possibilità di un confronto che una sentenza di assoluzione. Qui ci piace ricordare l’affabile all’epoca (primi anni 2000) procuratore Corrado Carnevali che, una volta alla settimana, riceveva un uomo che gli raccontava del suo amore platonico per una nota cantante. Con pazienza, simpatia e rispetto ascoltava una persona che manifestava evidentemente delle fragilità.

Ed ecco che arriva, inaspettata, epifanica, una soluzione che ha le fattezze bianche e nere di un QR code, il codice a barre che apre ad altre dimensioni. Sulla porta di una magistrata al quarto piano, è apparso un foglio di carta con un ‘languido’ invito: “Scan me” e a fianco la spiegazione. “Fotografando con il cellulare l’immagine a fianco sarà possibile accedere alla pagina per gli appuntamenti. La disponibilità sarà comunicata mensilmente”.

Proviamo a cliccare il link ed ecco spalancarsi un mondo di appuntamenti con addirittura due alternative: “(Telefonico) Appuntamento 15 minuti” con indicazione del numero da comporre e (In presenza) Appuntamento 15 minuti presso la Procura”. Sotto appare il calendario da compulsare per selezionare date e orari disponibili. Con quale frequenza, non tocca a noi scoprirlo.  (manuela d’alessandro)

Un pomeriggio d’agosto nel tribunale, caccia al pm di turno nel deserto

Bella la giustizia a Milano, ad agosto. Ci vado sempre in vacanza.

Ieratica come i grattacieli in costruzione che svettano lucidi e snelli dalle finestre ai piani alti del palazzo, l’emblema del dèmone di questa città inseguito dalla Procura.

Tutto azzurro oggi, vista panoramica che nemmeno in costiera e in più la pace dei sensi. What else?

Cinque del pomeriggio: l’ora delle rese dei conti. Non qui, non ora.

“Andiamo dal pubblico di ministero di turno a vedere se succede qualcosa a Milano” si motivano due cronisti habitué del tribunale che cercano sul sito della Camera Penale e annotano il nome del pubblico ministero a cui spettano gli affari urgenti di giornata.

 

Non sia mai, in fondo il Watergate nacque da un’incursione di Bob Woodward e Carl Bernstein alla direttissime.Ma torniamo ai duri marmi del palazzo. Il pm è un nome mai sentito, sarà appena arrivato.

Parte una caccia che di piano in piano si fa sempre più allucinata. L’umidità  amazzonica aiuta a trasecolare. Consultiamo i fogli con l’elenco dei nomi e dei numeri delle stanze. Il pm D. non è indicato.

Transitiamo a fianco di cumuli di sedie e vecchi condizionatori accatastati.

Tutto inanimato, se non fosse che le persone che si occupano delle pulizie stanno bagnando il pavimento potremmo essere nel deserto.

Disturbiamo uno di loro per chiedere se sappiano dove stia il nostro magistrato. Negativo.  Chiediamo a  a un uomo che cammina nei paraggi, potrebbe essere un  cancelliere. Elegante.“Sa dove si trova D.?”. Il cenno negativo del capo è la risposta.

Troviamo un pubblico ministero al lavoro dopo avere bussato invano in altre stanze. Chiacchiere di rito e la domanda: “Sa dov’è la stanza di D.?”. Risponde che forse l’ha visto in una riunione ma non sa dove sia. Saliamo, inerpicandoci negli strettti ‘vicoli’ della Direzione distrettuale antimafia. Passiano accanto a una fotocopiatrice che ha un sussulto e ce lo abbiamo pure noi, naufraghi straniti in mezzo a un mare di calda ovatta.

Ecco una persona, un dipendente di un ufficio. “Dov’è D.?”.  Risponde, un po’ accigliato. “Dovete chiedere in centrale penale ma alle 17 di venerdì dubito che troviate qualcuno…”.

Riscendiamo al quarto. C’è vita in un ufficio, due impiegati della giustizia si danno da fare dietro a malloppi di fascicoli. “Cercavamo D., siamo due giornalisti”. “Sì, vi conosco. Perché lo cercate?”. “Per sapere se durante il turno ci siano stati dei fatti rilevanti…”.

Prende il telefono e chiama D. Rasserenati dalla sua esistenza, ascoltiamo la telefonata dalla quale il nostro gentilissimo interlocutore apprende dal magistrato che no, non ci sono notizie. Ma, per curiosità, insistiamo con una tigna effettivamente degna di miglior causa, dove ha la stanza il pm D.?. Lui sorride, quasi intenerito. Dai, ci siamo, pensiamo: ora ce lo dirà! E invece: “Ve lo dico lunedì”.

Buon week end, giustizia.

(Manuela D’Alessandro)

‘Morire di Stato’, il libro che racconta le storie di di 365 “vittime dell’Italia Repubblicana”

Gianpaolo Demartis, Elton Bani. Sono i due uomini che hanno perso la vita per strada a un giorno di distanza,  dopo essere stati colpiti dai dardi dei taser usati dai carabinieri. Si allunga, con loro, l’interminabile elenco dei morti di Stato. Ma quante sono le persone cadute durante un corteo, in una caserma, in operazioni di servizio di forze di polizia? Come si chiamavano? Che storie e che responsabilità stanno dietro decine di croci piantate nei nostri cimiteri?   Il collettivo Cronache ribelli prova a rispondere. Cerca di rompere quello che definisce il  «tabù della violenza di Stato». E va oltre una manciata di nomi e cognomi non ancora evaporati dalla memoria collettiva, Giuseppe Pinelli,  Luca Rossi, Roberto Franceschi, Giannino Zibecchi, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Carlo Giuliani.

Lo strumento è il libro Morire di Stato, che ricostruisce e condivide le storie  sbagliate e le brevi esistenze di «365 vittime dell’Italia repubblicana»,  una al giorno, una parte di quelle contate tra il 1946 e il 2024.

Enrico  Costantini, Giuseppe Grossetti e Adolfo Scurti aprono la pubblicazione. Restarono a terra, a Roma, durante gli scontri scoppiati il 9 ottobre 1946 al termine di una manifestazione operaia. Chiude l’elenco parziale Ramy Elgaml, il ragazzo in sella allo scooter in fuga  guidato da un amico, braccato dai carabinieri e finito contro un palo al Corvetto di Milano, il 24 novembre 2024. Tra loro, a decine, disoccupati, lavoratori, migranti, studenti, disoccupati, contestatori, malati psichiatrici e qualche donna (Giorgiana Masi, al esempio), tifosi (come Gabriele Sandri), un militare (il parà Emanuele Scieri), i “soliti sospetti”. Spacciatori, anche. E poi rapinatori, pregiudicati, detenuti, minorenni.

Molti nomi, scorrendo l’indice, non dicono nulla prima della lettura delle schede cui i numeri di pagina rimandano, corredate da citazioni delle fonti. Altri evocano volti, indagini azzoppate, familiari in lotta per avere giustizia, aspettative deluse, polemiche.

C’è un filo comune, un collante dichiarato. La scelta di raccogliere in un solo volume casi così differenti, e spesso consegnati all’oblio, nasce da una volontà precisa. «Respingere con forza l’idea che esistano vittime di serie a e vittime di serie b, che si possano distinguere i morti tra chi merita giustizia e chi no, la divisione tra chi è degno di pietà e chi è ritenuto colpevole della propria fine».  Così nel libro vengono dettagliate «storie che è sempre più importante portare a galla e diffondere», perché «viviamo in un Paese dove ciclicamente la repressione torna a essere la risposta dello Stato al dissenso, alla marginalità, alla mancanza di servizi, alla crisi economica, alla malattia mentale, alle scelte di vita non conformi».  La controprova più recente sarebbe il decreto sicurezza, la conferma è che la conta dei morti è proseguita dopo la pubblicazione del volume.

Le analisi degli autori sono nette e a tratti urticanti, le argomentazioni destinate a far discutere e a innescare reazioni di segno opposto. «Per noi – rimarcano – nessun crimine giustifica la pena capitale.  Non solo. Nessuno dei comportamenti assunti dai protagonisti dell’almanacco in un contesto autenticamente democratico, dovrebbe avere come conseguenza la morte». E, ancora, riferendosi a chi viene associato in negativo a tutte queste vite a perdere: «Non si tratta  solo di condannare l’operato dei rappresentanti dello Stato, le azione di singoli individui. Il problema è più profondo. Il problema sta nelle leggi che autorizzano l’uso sproporzionato della forza, nelle prassi che trasformano l’intervento sanitario in operazioni di polizia, nei regolamenti e nelle legislazioni che tollerano la detenzione arbitraria, la tortura psicologica, l’umiliazione sistematica».

Morire di Stato, pagine 182, 17,00 euro, in vendita anche on line

Lorenza Pleuteri, giornalista indipendente, collaboratrice di Osservatoriodiritti.it

La graticola mediatica senza fine di chi aspetta di sapere se sarà arrestato

Nella riforma voluta da Nordio che ha introdotto l’interrogatorio preventivo c’è un buco. Non viene indicato un termine entro cui il giudice deve decidere se appallottolare la richiesta di misura cautelare firmata dalla Procura o accoglierla del tutto o in parte.

Per i ‘candidati’ all’arresto coinvolti in inchieste che interessino l’opinione pubblica viene in sostanza acceso un fuoco mediatico sul quale stanno ad arrostire per giorni (o anche mesi), come sta accadendo per l’ex assessore comunale Giancarlo Tancredi,  l’imprenditore Manfredi Catella e gli altri quattro sui quali dovrà pronunciarsi il giudice nell’ambito dell’inchiesta sul presunto sistema di corruzione che avrebbe dominato l’urbanistica milanese. L’effetto viene amplificato perché, nel frattempo, circola in purezza sui media l’atto dell’accusa non mediato da un giudice, talora ridondante di quelle espressioni, diciamo, ‘vivaci’ che utilizzano i pubblici ministeri nell’afflato investigativo. Senza contare allegati e dettagli che il giudice prima ometteva di svelare nell’ordinanza e ora  invece vengono messi a disposizioni delle parti e, quindi, che piaccia o meno, hanno buone possibilità di diventare pubblici.

Poi, certo, va riconosciuto che la novità legislativa permette a chi sta sta con mezzo patibolo sul collo di provare a sfilarsi indebolendo le esigenze cautelari dimettendosi o attraverso memorie e dichiarazioni nel faccia a faccia  col gip.

Sappiamo bene però che, nell’eccitazione mediatica, fa molto più rumore un pm che accusa che cento avvocati che difendono i loro assistiti. E, anche se poi la misura cautelare dovesse essere respinta dal giudice, sulla graticola resterebbero pochi, bruciacchiati brandelli di reputazione. Per questo mettere un tempo massimo a questa attesa costituirebbe un atto di civiltà.

(manuela d’alessandro)