giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

“Mi sento in colpa per la strage di piazza della Loggia”. Il verbale esclusivo della superteste

Aula del tribunale dei Minori di Brescia, 20 settembre 2024.

Le porte sono chiuse al pubblico e ai media perché si sta processando un signore di 67 anni che mezzo secolo fa ne aveva 16, si chiama Marco Toffaloni ed è imputato perché viene ritenuto uno dei due ragazzi che infilarono in un cestino la bomba della strage neofascista di piazza della Loggia.

‘Giustiziami’ è entrato in possesso del verbale dell’udienza in cui cinque decenni dopo, per la prima volta, la supertestimone della nuova indagine, della quale non faremo il nome su richiesta della nostra fonte, snocciola parole accorate e importanti rispondendo alla pm Cathy Bressanelli, alla difesa e alla Corte. E si batte una mano sul petto. “Mi sento in colpa di essere stata troppo ingenua, mi sento in colpa…Ma mi sento in colpa per tutto a dire la verità, anche per la strage, anche perché se avessi parlato prima forse, diciamo, la parte civile (i familiari delle vittime, ndr) non avrebbe sofferto tutti questi anni. Però è anche vero che io ho salvato la mia pelle, sono riuscita a vivere in questi anni e ho fatto tante cose e soprattutto ho una bella famiglia e, di anno in anno, per salvaguardare tutto questo ho preferito agire così, cioé stare…Nascondere in pratica. Però io allora, per quanto mi possa sentire in colpa, diciamo che non avevo proprio capito fino a che punto Silvio avesse  questa sua….Chiamiamola missione, non so come definirla perché era tanto giovane anche lui. Certo il fatto che è successo dopo è ancora più grave della sua morte…Ma io non potevo farci nulla, non lo sapevo. Io pensavo veramente ancora al Blue Note, ancora una vendetta, chi lo sa, magari una vendetta su che cosa”.

Batticuore

Bisogna allora tornare a quei tempi di amore e morte quando la ragazza si invaghì di Silvio Ferrarri, neofascista ma anche informatore clandestino e infedele delle forze dell’ordine, un personaggio che traccia una linea nella storia perché, sei giorni prima dell’attentato, saltò in aria a bordo della sua Vespa in piazza Mercato trasportando dell’esplosivo. Venne in contatto anche con ‘Tomaten’, così veniva chiamato l’imputato per il rossore che infiammava le sue guance, e cominciò a frequentare gli ambienti di destra estrema nei quali maturò l’idea della strage del 28 maggio 1974 quando venti persone caddero per l’esplosione sull’asfalto viola per la pioggia mischiata al sangue e un centinaio rimasero ferite consegnando i loro nomi alla memoria di una delle più tremende pagine del Novecento italiano.

Sono pochi mesi di batticuore, “tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974”.

“Ha cominciato a piacermi, io a lui e ci siamo messi insieme. Silvio Ferrari mi portava in un appartamento di via Aleardi a Brescia dove noi ci incontravamo per flirtare e lì ho capito la sua passione per la politica. Il mio approccio con questo appartamento era solo per amoreggiare. Silvio aveva una grande macchina fotografica e lì sviluppava delle fotografie. Erano foto di persone che poi nel tempo ho visto personalmente, quindi militari e civili e poi di addestramenti, montagne…Nei mesi che precedono la morte di Silvio in quest’appartamentino c’era un andare e venire di persone. Silvio dava a queste persone delle buste chiuse e riceveva altrettante buste. Armi? Solo una volta ho visto una pistola sotto il materasso. Ho capito chi erano quelle persone, dopo la strage, quando sono stata perquisita e interrogata”.

Di quei giorni evoca anche una discussione in auto tra Toffalon e Ferrari. “Eravamo su una Bmw, qualche settimana prima della morte di Silvio. Di quella discussione mi è rimasto impreso che Silvio non voleva più fare quello che Toffaloni voleva che facesse. Io credo che questa storia ruotasse attorno al Blue Note. Non vorrei parlare di attentato perché questa parola non lo so….forse mi dà fastidio e mi ricordo che si doveva fare assolutamente di sabato perché oltre a colpire Bruschi si doveva colpire anche un funzionario della Questura che andava sempre al sabato in questo locale.  Non lo so come mi sono comportata, ero lì e basta. Solo quando io ho rimosso in questi anni e ho cominciato a pensarci esce fuori questo profilo di me, mi dispiace ma allora non capivo”. Il riferimento è a un attentato, poi sventato, in un locale bresciano che Ferrari si sarebbe rifiutato di fare. La superteste racconta anche di essere andata con Ferrari a Palazzo Carli, sede della Nato, e  in una caserma dei carabinieri a Parona, un po’ decentrata, vicino a un fiume. Poi, sempre legato alle riunioni di Parona, svela che a un certo punto Ferrari discusse col generale dei carabinieri Francesco Delfino “che raccomandò a Silvio che dopo l’estate doveva andare a Milano, continuare a lavorare per loro e allora gli avrebbero trovato un lavoro diciamo di copertura e avrebbe dovuto far lì delle cose per loro, poi sarebbe tornato. Ma questa opportunità gliel’avrebbe data solo se faceva questa cosa al Blue Note”.

“Tieni, sono le foto della salvezza”

Prima di andare a Milano, ecco un altro passaggio cocente della testimonianza. “Silvio mi consegnò dellle fotografie. Erano quelle che stampava delle riunioni di Parona e dei partecipanti. Io ho sempre detto che non le ho guardate ma invece una sbirciata gliel’ho data. Me le diede prima di morire, ho un ricordo di un Silvio molto diffidente nei confronti dei suoi amici. Il pacco lo nascosi in pizzeria sotto le guide telefoniche. Lui mi disse ‘tienile perché sono la nostra salvezza’. Ho capito cosa voleva dire quando le ho viste cioé che Delfino non avrebbe più potuto fare niente perché in quelle foto c’era anche lui”.

Il suo  è il sinistro affresco di quello che, nonostante si stiano svolgendo ancora due processi perché la verità è incompleta, è ormai chiarissimo: in quella strage, come in altre italiane, molte figure istituzionali, fecero ballare i fili neri dell’eversione. La testimone li riconosce quasi tutti, quando gli vengono mostrate le immagini in aula. Toffaloni, in particolare, era “quel bel ragazzo” che andava allle riunioni a Verona. “Io e Silvio ci andavano durante la settimana, sempre al pomeriggio, per tornare poi tipo alle sette di sera. Era sempre inverno, era sempre freddo”.

Tra la morte di Silvio e la strage c’è stato un altro incontro in pizzeria coi veronesi di Ordine Nuovo. “C’erano Nando Ferrari,Toffaloni, Zorzi e Siliotti. Succede che praticamente hanno mangiato, io servivo e ho raccolto queste…Questa frasi per cui mi rendo conto che vuole fare una vendetta nei confronti della morte di Silvio e sento Zorzi, che è quello più caldo del gruppo, che dice che questa cosa la vuole fare, la vuole fare lui”.

“Dicono di cosa si tratterà, di dove avverrà?”No, io ho sempre pensato che volessero ritentare, forse allora ho pensato che non aveva fatto una cosa Silvio e la facevano loro, però sempre con riferimento al Blue Note”. “Quindi in quell’occasione loro non dicono nulla che faccia pensare a Piazza….?”. “No, però lo dissi a Sandrini che era un carabiniere del Nucleo Delfino, poi l’ho rivisto dopo e lui mi disse di non parlare mai dei carabinieri se no avrei avuto dei casini”. La pm Bressanelli vuole sapere come sia affiorato il desiderio di esporsi così tanti anni dopo e fa domande sul colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, la cui credibilità è stata messa in dubbio da  Donatella Di Rosa, ‘Lady Golpe’, che l’ha denunciato per stalking.

Un carabiniere “sano di mente” 

“Non gli ho mai detto una cosa che non fosse vera. Ho dovuto piano piano fidarmi di lui e forse anche lui di me, ho avuto bisogno di capire se mi trovavo di fronte a un carabiniere sano di mente…c’è voluto molto tempo”. “Perché tanti verbali si interrompono?”insiste il magistrato. “Perché c’erano dei momenti che proprio non avevo….ero proprio stanca di rivangare certe cose e siccome volevo essere molto precisa con lui avevo bisogno di riflettere, quindi lui mi lasciava andare e poi ritornava. Non mi ha mai suggerito niente, non ho mai capito dove volesse arrivare”. “Perché in passato ha reso dichiarazioni diverse?”. “Ogni volta o c’era l’avvocato che mi diceva di non parlare o c’era la famiglia che mi diceva di non parlare. Io ho fatti vari tentativi ma poi ero bloccata dalle circostanze. Questa volta sono andata sola dal Colonnello e ho fatto quello che volevo. Ho temuto per la mia vita quando sono diventata grande, quando mi sono resa conto che era stato molto pericoloso quello che era successo”. (manuela d’alessandro)

 

 

 

 

 

 

 

Il nuovo reato sulla patente sospesa per droga non è come sembra

“Drogarsi è da coglioni, mettersi alla guida da drogati è da doppi coglioni”, così il ministro Salvini annunciava che, con la riforma del codice della strada che ora il Senato si appresta ad approvare, avrebbe finalmente fatto “ritirare la patente a chi viene trovato alla guida drogato”.

Non serviva una riforma: Salvini forse lo ignora, ma il reato esisteva già e prevede appunto, per chi sia colto alla guida in condizione di alterazione psico-fisica dovuta all’assunzione di sostanze stupefacenti, oltre alla condanna, la sospensione della patente di guida.
Allora cosa prevede il nuovo reato? La punizione non più di chi guida “sotto l’effetto” ma “dopo aver assunto stupefacenti”. Sembra una piccola differenza, ma è sufficiente per trasformare una norma in tema di sicurezza stradale nel cavallo di troia per una svolta in senso proibizionistico della nostra legislazione.
La procedura che verrà introdotta prevede che, per l’accertamento della presenza di tracce di sostanze stupefacenti nell’organismo, la polizia potrà sottoporre il guidatore a un tampone salivare. Se il test è positivo, denuncia e patente sospesa. Il problema è che non è affatto detto che chi risulti positivo ad un simile esame sia ancora sotto l’effetto della sostanza. Infatti, diversamente dall’alcool, le sostanze stupefacenti, anche le droghe leggere, tendono a lasciare nell’organismo tracce biologiche persistenti, che permangono ben oltre il tempo necessario a smaltire l’effetto: per giorni, anche per settimane.
“Se ti stronchi di canne e guidi, io ti ritiro la patente”, dice Salvini. Bene; ma così la patente la ritiri anche a chi ne ha fatto un uso moderato (o terapeutico), magari giorni o anche settimane prima di guidare.
Il fatto che al momento del controllo la persona fosse perfettamente lucida è irrilevante. Qual è il senso? Il senso c’è, ma non è quello di sicurezza che viene dichiarato. Il vero obiettivo della norma è di natura etica: punire l’uso personale.
Difficile non collegare questo intervento con la proibizione della cannabis legale, quella priva di effetto drogante, introdotta con il pacchetto sicurezza e non collocare il tutto in un disegno più ampio. Ed eccolo, il vero volto del governo più a destra della storia repubblicana: un po’ bacchettone, un po’ berbenista, un po‘ ipocrita, molto opportunista.
Il disegno di legge deve ora essere votato in Assemblea. Fino a martedì è ancora possibile presentare emendamenti. Durante l’esame in commissione solo i senatori di AVS sembrano essersi accorti del problema. Salvini a parte, veramente le altre forze politiche non vogliono intervenire per modificare una norma così illiberale?
avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini

Gli incontri in tribunale tra la giudice milanese e le presunte ‘spie’

Milano, Palazzo di Giustizia, pomeriggio del 4 luglio 2023. L’ex poliziotto Carmine Gallo, ora investigatore privato, e l’esperto informatico Nunzio Samuele Calamucci bussano alla stanza 152. La porta è aperta, i due entrano, accolti dalla giudice Carla Romana Raineri.

Il colloquio dura un’ora: quei due che ne hanno viste di tutti i colori, come testimoniano gli atti dell’indagine sulla presunta carovana dello spionaggio che faceva salire a bordo di tutto di più, definiscono l’incontro “surreale”.

La giudice ha un grosso problema con un familiare e si è rivolta a loro “consapevole”, scrive il pm ma ovviamente è tutto da dimostrare e lo farà la magistratura di Brescia, che i due usassero metodi illeciti per informarsi su tre persone da lei indicate legate a ‘quel’ congiunto.

“Lo vuole rovinare, gli deprederà tutte le imprese e tutti gli immobili” sintetizzano  i rappresentanti della società  ‘Equalize’. E per farlo, dicono gli inquirenti, “si è esposta al ricatto”. “Stiamo facendo un favore grossissimo al presidente della sezione civile…” -  spiegano i creatori di dossier a una persona che ha dei grattacapi nel recuperare un credito —. Non dirlo a nessuno, nemmeno a tua moglie…appena tu sai chi è il giudice che si occupa di questo  me la vedo io”.

Gallo e Calamucci affermano che Raineri avrebbe avanzato perfino una richiesta spericolata: “Poi se volete pure intercettarlo abusivamente…”, riferito sempre a ‘lui’.

Quel pomeriggio di luglio non era la prima volta che la coppia andava a trovare la giudice. Il 13 gennaio 2023 Gallo la chiama avvertendola che col socio l’andranno a trovare. “Poi si rivolge a Calamucci ed esclama: ‘Ha detto se possiamo andare a noi al Palazzo di Giustizia, scende lei a prenderci, così ci evita il controllo!”. E così Raineri farà, andando gentilmente ad accoglierli all’ingresso per risparmiargli la noia di  svuotare le borse sul tapis roulant.

La complicata redazione del report con dati bancari, personali e giudiziari, prosegue con qualche affanno mentre la polizia giudiziaria li pedina, ascolta tutto e  scatta le fotografie  degli incontri.  (manuela d’alessandro)

“Le interviste tv non possono essere prove” dicono i giudici della strage di Erba

 

Senza entrare nel merito del romanzo giudiziario ormai liso della strage di Erba che ancora non è arrivato all’ultima pagina perché la difesa farà ricorso contro il ‘no’ alla revisione, le motivazioni alla sentenza che mette un’altra anta davanti alla porta già chiusa dalla Cassazione firmate dai giudici della Corte d’Appello di Brescia dicono qualcosa di molto interessante a proposito di uno strumento sempre più utilizzato  per riaprire partite quasi impossibili.

Parliamo delle interviste televisive, qui in particolare quelle andate in onda nel programma tv ‘Le Iene’ ma i giudici Antonio Minervini, Paolo Mainardi, Ilaria Sanesi sembrano andare dal particolare all’universale.

I magistrati spiegano che non possono valere come “prova nuova” in grado di riaprire un processo perché, “diversamente dal testimone escusso in giudizio, il soggetto intervistato non ha l’obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità e non assume alcun impegno in tal senso. Al contrario, è sicuramente condizionato dal mezzo e dalla pubblicità che esso garantisce e tende generalmente a compiacere l’intervistatore e a porsi in una luce favorevole, abbandonandosi a supposizioni ed esprimendo opinioni personali che non sarebbero ammesse in sede processuale”.

Le “nuove prove” in grado di scalfire una sentenza definitiva, insistono, ”devono avere un elevato grado di affidabilità ed essere idonee a ribaltare l’affermazione di penale responsabilità contenuta nella sentenza di cui s’invoca la revoca. La diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti, inoltre, può costituire prova nuova solo se fondata su nuove acquisizioni scientifiche, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili e sempre che si tratti di applicazioni tecniche accreditate e condivise all’interno della comunità scientifica di riferimento. Poiché una parte delle prove di cui la difesa chiede oggi l’acquisizione sono rappresentate da interviste rese a testate giornalistiche e televisive, a queste preliminari considerazioni sulla nozione di prova nuova, deve aggiungersi che la natura di documento dei supporti cartacei e audiovisivi di tali interviste non vale, ad avviso della Corte, a conferire loro il rango di prova ammissibile in sede processuale. Nessun presidio, al di là della deontologia dell’intervistatore, è previsto a tutela della genuinità e libertà delle sue risposte e della correttezza delle domande, che ben possono essere, in un’ottica di mero giornalismo investigativo, suggestive, insinuanti e insidiose. L’argomento vale per tutte le interviste proposte dalle difese nell’istanza di revisione e nelle successive memorie, a maggior ragione per quelle a soggetti che hanno deposto nel dibattimento di primo grado, la cui testimonianza non può essere falsificata da risposte incerte o apparentemente in contrasto con quanto dichiarato nella sede processuale deputata, offerte a distanza di quasi vent’anni dai fatti e dalla testimonianza resa in primo grado, fuori da un’aula di giustizia, in contesti privi della sacralità propria del processo, senza obbligo di verità”.

Se è vero che spesso le interviste sono effetti speciali a scopo audience e clic o per fomentare fazioni e che la maggior parte delle volte il loro contributo all’accertamento della verità giudiziaria sia nullo, accade che talvolta proprio un’intervista risolva perfino un omicidio, come accaduto nel caso di un cronista di ‘Pomeriggio 5’ che, qualche giorno fa, ha raccolto la confessione di un uomo che ha raccontato di avere strangolato la madre con tanto di chiamata in diretta alle forze di polizia per farsi arrestare.

In altre occasioni, se non proprio prove, e del resto non dovrebbe essere quella l’ambizione di un cronista, alcune interviste hanno offerto stimoli o svegliato magistrati impigriti. (manuela d’alessandro)

Le motivazioni alla sentenza che boccia la revisione

 

 

Tutti per Youssef “che ormai canta nel vento” ma ci indica i nostri errori

 

L’applauso che di solito scioglie il minuto di silenzio nelle commemorazioni questa volta non c’è. Sono molti quelli che prendono il microfono in bilico con la commozione per ricordare e provare a dare un senso alla morte di Youssef Mokhata Loka Barsom, bruciato vivo chiuso in un bagno della sua cella di San Vittore. Più di duecento nella sala del Municipio 1, tanti avvocati,  due magistrati, educatori, tanti che battono i tribunali e le corsie dolorose del carcere e che però sentono che questa volta si è oltrepassata una frontiera nella storia di un ragazzo di 18 anni che per due volte i giudici minorili avevano assolto per un vizio totale di mente.

‘Non mi ascoltate’ sussurra Youssef chino con le mani sulla fronte, appoggiato a una sbarra che arde nella vignetta sulla locandina. E invece stavolta sì, e ci sono anche tanti ragazzi della sua età.

Lella Costa recita la ‘Preghiera di gennaio’ di Fabrizio De André. “Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento ma ti potrà indicare gli errori di noi tutti che vuoi e puoi salvare”.  Antonio Casella, volontario nel carcere milanese da decenni, parla di un “orrore da proclamare a tutta voce per quanto è stato disumano” e del “volto sfigurato della pena” .

L’avvocata Antonella Calcaterra legge una lettera della scrittrice Daria Bignardi che racconta di avere ricevuto una foto di Youssef da Cecco Bellosi che gestisce la cooperativa ‘Il Gabbiano’, dove quel ragazzo è stato amato.

 “Mi ha detto che gli piaceva tantissimo farsi i selfie e che si faceva volere un gran bene. Spesso si ama chi è più complicato, soprattutto se è giovanissimo. I ragazzini fanno un sacco di sciocchezze ma hanno bisogno di aiuto, non di essere chiusi in prigione”. “E’ da quattro mesi che le celle di San Vittore bruciano con dentro le persone e non sempre ne escono incolumi, in particolare nel sesto reparto – considera l’ex cappellano del carcere, don Roberto Mozzi -. E’ irragionevole pensare di rispondere a un malato con la pena e non con la cura. Il fuoco fa male ed è pericoloso ma San Vittore, così com’è, ancora di più”.
Arriva un messaggio vocale di Fabio Fazio: “Chi ha 18 anni con una diagnosi di malattia mentale non può stare in carcere, è intollerabile ed è una sconfitta per tutti noi che siamo fuori, separati dalle mura che non ci fanno vedere”. E poi la riflessione di Monsignor Antonio Delpini che reclama “un’attenzione più corale e duratura perché la notizia racconta una storia inquietante”.
Invita a non “attribuire sbrigativamente colpe e inadempienze alle persone che lavorano in carcere in un sistema che è unanimemente riconosciuto insostenibile. Si dovrebbe evitare che una vita valga così poco”.
Valeria Verdolini di Antigone sottolinea che sono tante, troppe le “notizie terribili” che arrivano dalle carceri milanesi, alludendo anche alla presunte violenze degli agenti penitenziari al Beccaria, “ma non ci si abitua mai a quella sofferenza e a quel dolore”. “Bisogna battersi contro l’assuefazione – è il pensiero della presidente della Camera Penale milanese Valentina Alberta -. Durante una delle tre visite di quest’anno, abbiamo trovato un ragazzo che era in punizione perché aveva tirato delle uova contro un agente. Ho trovato disumano che fosse lì e che non sia stato invece ascoltato”.
La parlamentare europea di Avs Ilaria Salis spiega che “è stata una notizia che mi ha gelato il sangue ma non un fulmine a ciel sereno per quello che ho visto a San Vittore quando l’ho visitato”.  
Poi, c’era chi lo conosceva, Youssef. La sua tutrice legale volontaria che fa un appello perché più persone si dedichino a esercitare il ruolo di accompagnare i minori che giungono in Italia e attraversano muri burocratici e umani. La sua avvocatessa Monica Bonessa: “E’ stata una morte evitabile ma non è vero che non è stato visto. Abbiamo alacremente lavorato coi servizi sociali e le comunità minorili che sono piene di ragazzi con un disagio psichiatrico ma ci sono dei ‘buchi’ nel sistema. Il modo migliore per commemorarlo è mettere a terra le soluzioni”.
Un giovane dell’associazione ‘Sbarre di zucchero’ legge un ricordo di chi lo conosceva: “Mi aveva conquistato il tuo sorriso, la tua anima semplice. L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che avevo il cuore buono. Lui ce l’aveva”.
Scorrono un video in cui col sorriso solare dei 18 anni gira un mestolo in una pentola colma di cibo. Si sentono le parole in arabo e italiano e la musica dolce  di ‘Bayna’, la canzone di Ghali, qui  per un ragazzo che era arrivato su un barcone, superando rotte tumultuose, prima di perdersi in Italia.
“Non c’è figlio che non sbaglia no/Tu sogni l’America io l’Italia/La nuova Italia”. (manuela d’alessandro)