giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Moro per sempre, toghe rosse a caccia di fantasmi

Parliamo di toghe rosse. Ma qui Silvio Berlusconi c’entra niente. Sono passati giusto sette mesi dal giorno in cui si trova sotto sequestro l’archivio di Paolo Persichetti ricercatore storico che si occupa della vicenda degli anni ‘70 è in particolare del caso Moro. L’inchiesta è coordinata dal pm di Roma Eugenio Albamonte noto esponente di Magistratura Democratica e l’atto relativo alla perquisizione dell’8 giugno scorso si fregiava addirittura della firmato dell’allora procuratore capo Michele Prestipino eletto anche con i voti di Md e poi detronizzato perché la sua nomina era stata dichiarata irregolare dal Tar e dal Consiglio di Stato.
Il capo di incolpazione è cambiato già cinque volte su interventi sia del Riesame sia del gip, ma finora nessun giudice ha avuto il coraggio di dissequestrare.
L’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo era caduta già a luglio scorso. È rimasta quella del favoreggiamento di latitanti, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, entrambi da tempo condannati all’ergastolo per la strage di via Fani.
Persichetti aveva mandato per posta elettronica a Lojacono atti della commissione parlamentare sul caso Moro che il presidente Giuseppe Fioroni aveva etichettato come riservati nonostante fossero destinati a distanza di due giorni alla pubblicazione con la relazione.
Fioroni è stato sentito come testimone a carico di Persichetti. Un gioco di sponda tra procura procura generale che aveva riaperto la caccia ai misteri inesistenti del caso Moro e commissione parlamentare che non è stata rinnovata nell’attuale legislatura ma che continua a incombere sulla vita politica e giudiziaria del paese.
Il 17 dicembre scorso il gip Valerio Savio anche lui aderente a Md si riservava al termine dell’udienza di decidere sulla richiesta di dissequestro dell’archivio presentata dall’avvocato Francesco Romeo. Con ogni probabilità si arriverà al 14 gennaio con le carte ancora sotto sequestro.
A 43 anni dai fatti il pm Albamonte, lo stesso che ha chiesto e ottenuto di prendere il Dna dei condannati per il caso Moro, è a caccia di complici non individuati di improbabili mandanti esterni. I sei processi già celebrati dai quali emerge in modo chiaro che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse non contano nulla. La ricerca storica indipendente viene criminalizzata paradossalmente per essere in linea con gli esiti processuali. Il sequestro dell’archivio ha provocato lo slittamento dell’uscita del secondo volume del libro “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” la storia delle Br di cui Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi. Una sorta di censura preventiva che evidentemente è parte integrante di questa mega operazione di propaganda politica da parte di una corrente della magistratura.
La mamma dei dietrologi come quella dei cretini è sempre incinta. Ma siamo nel paese in cui è il Presidente della Repubbluca oltre che capo del Csm a gridare ogni 16 marzo ogni 9 maggio: “Bisogna ricercare la verità”. Lo stesso Sergio Mattarella che il giorno del rientro di Cesare Battisti ripreso dagli smartphone di due ministri da lui nominati annunciò “E adesso gli altri”. Così diede il via al l’operazione Ombre Rosse arpionando una decina di ormai anziani residenti a Parigi da decenni responsabili di fatti di lotta armata che risalgono a 40 anche 50 anni fa. E tra i dietrologi non manca chi si aspetta dai parigini “la verità su Moro”. La fissazione dicono in Sicilia è peggio della malattia (frank cimini)

G8, il 20 gennaio il caso Vincenzo Vecchi alla corte Ue

È fissata al prossimo 20 gennaio l’udienza davanti alla corte di giustizia europea del Lussemburgo in cui si discuterà della consegna all’Italia da parte della Francia di Vincenzo Vecchi condannato per devastazione e saccheggio per fatti relativi alle manifestazioni del G8 di Genova e a un corteo antifascista a Milano. A investire della questione la corte del Lussemburgo era stata la Cassazione francese perché il reato per il quale Vecchi era stato condannato non fa parte del codice d’Oltralpe.
Si tratta di una complicata questione di diritto relativa al principio della doppia incriminazione, delle modalità di esecuzione del mandato di arresto europeo e della proporzionalità della pena.
La corte di Appello di Angers non aveva riconosciuto le condanne per devastazione e saccheggio ma solo le condanne per l’aggressione a un fotografo e la detenzione di una bottiglia molotov. Secondo la corte Vecchi dovrebbe scontare la pena di 1 anno, 2 mesi e 23 giorni. In Italia Vecchi era stato condannato a oltre 11 anni per il G8 e a 4 anni per la manifestazione di Milano. La condanna per il fatto di Milano non c’è più perché è stata considerata già scontata. Quella per i fatti di Genova deve fare i conti con l’assenza del reato di devastazione saccheggio in Francia.
Secondo l’avvocato difensore Amedeo Barletta “non sussiste la condizione della doppia incriminazione. Nel caso di specie va valutata la punibilità nell’ordinamento francese della complessa congerie di fatti. Gli episodi riconducibili a Vecchi sono assolutamente marginali rispetto a quelli compresi nell’imputazione. Va tenuto presente che se il mandato di arresto era proporzionato al momento della sua adozione alla stregua della normativa italiana diviene invece grandemente sproporzionato nel momento della sua esecuzione sulla base della disciplina francese vigente”.
Secondo l’avvocato Barletta “la giustizia francese si troverebbe a concedere l’estradizione per una condanna che supera in maniera assai rilevante il massimo della pena combinabile in Francia in violazione dei diritti fondamentali della Ue”.
Vecchi era stato arrestato l’8 agosto del 2019 a Rochefort en terredove lavorava da molti anni ed era tornato in libertà il 15 novembre successivo in attesa della decisione della magistratura francese. Va ricordato che la corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato tre volte l’Italia per l’operato della polizia di Genova nel 2001 equiparandone la violenza a atti di tortura.
In Italia i funzionari di polizia condannati sono stati tutti promossi (frank cimini)

Pena già scontata in Albania, per l’Italia non conta
Di nuovo a processo col ‘viva bis in idem’


Condannato per droga a casa sua, in Albania, grazie anche a indagini italiane. Pena già interamente scontata. Stessi fatti, stessi tempi, stesse contestazioni: “non vi è dubbio”, scrive il giudice. Ma siccome adesso è l’Italia a volerlo processare, dei suoi quattro anni e rotti passati in carcere a Kruje, il nostro Paese francamente se ne infischia.
E.F. finisce in un’inchiestona della Dda di Milano nei primi anni del millennio. Richiesta d’arresto del 2005, cioè 16 anni fa, per traffico internazionale di droga. Arriva la condanna, 6 anni e 8 mesi. Di galere, intanto, incontra quelle patrie. La Procura di Milano ha contribuito con i suoi atti d’indagine all’inchiesta del procuratore di Tirana, con tanto di incontro tra magistrati avvenuto in Albania nel 2005. Oggi la procura di Milano insiste per processare di nuovo E.F.. Per gli stessi identici fatti. A dirlo non è solo il suo legale italiano, Daniele Sussman Steinberg, che da mesi chiedendo il proscioglimento sollevando in aula la questione, ma lo stesso giudice a cui viene posta.
“Non vi è dubbio – scrive il gup Roberto Crepaldi – che i fatti per i quali si è proceduto in Albania costituiscono i medesimi per i quali è a processo oggi: la lettura della sentenza consente di comprendere come il procedimento estero si sia svolto, a carico di E.F., in relazione al delitto di traffico di sostenze stupefacenti (quattro episodi) e si sia concluso con la condanna alla pena di anni 6 e mesi 8 di reclusione. Inoltre, la stessa motivazione della sentenza della Corte evidenzia che si tratti di procedimenti fondati sui medesimi atti di indagine, portati avanti in sinergia dalle autorità inquirenti dei due Paesi. Ciò non è, tuttavia, sufficiente a comportare la (automatica) improcedibilità dell’azione penale: dando per scontata l’esatta corrispondenza tra i fatti per cui si procede e quelli già giudicati in Albania – argomenta Crepaldi – vi è un ostacolo giuridico di un’automatica preclusione derivante dal bis in idem“. Cioè: sappiamo benissimo che hai già pagato per i reati che hai commesso, ma ti riprocessiamo comunque. Com’è possibile? C’è un “difetto di accordi bilaterali”, spiega il giudice, e dunque non è preclusa la “rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti, non essendo quello del ne bis in idem un principio generale del diritto internazionale”. Non basta “la Convenzione sul trasferimento delle procedure penali, aperta alla firma a Strasburgo nel 1972 ma mai ratificata dall’Italia”. E neppure il richiamo alla Carta di Nizza, essendo l’Albania “estranea al territorio dell’Unione europea”. Del resto il ne bis in idem è solo “un principio tendenziale cui si ispira oggi l’ordinamento internazionale”. E allora si rigetta l’istanza della difesa e si dispone il procedersi oltre. A processo, di nuovo, per gli stessi fatti, con le stesse prove, quelle di 16 anni fa. Poi un giorno, magari, alla fine del processo, dopo udienze celebrate, soldi spesi, vedremo quel che accadrà…intanto viva bis in idem.
Nel frattempo l’albanese, riarrestato in Italia per la seconda tranche della stessa inchiesta e poi messo ai domiciliari, nel 2015 ha pensato bene di darsela a gambe e tornare in Albania, dove si è fatto una famiglia e ha dei figli. Difficile negare che dal suo punto di vista la fuga dalla giustizia italiana abbia una sua razionalità.

Parigi, Italia sbaglia procedura su ex Br Di Marzio

Le autorità italiane hanno scelto la procedura sbagliata per ottenere la consegna dell’ex militante delle Br Maurizio Di Marzio uno dei dieci rifugiati a Parigi che rischiano l’estradizione. Nell’udienza di mercoledì scorso in corte d’Appello a Parigi i difensori di Di Marzio hanno eccepito la scelta di procedere con ‘emissione di un mandato di arresto europeo, il Mae, invece di una richiesta formale di estradizione. L’avvocato francese Willuam Julie’ che rappresenta lo stato italiano ma la presenza del quale in udienza viene contestata dalle difese ha sostenuto che si tratta di un semplice errore correggibile in corso d’opera.
Secondo Irene Terrel legale di Di Marzio va annullata l’intera procedura fin qui seguita e bisogna ripartire da zero. Sull’eccezione i giudici decideranno il prossimo 24 novembre.
Le udienze per gli altri ex militanti italiani riprenderanno il prossimo 12 gennaio perché l’Italia deve completare i dossier in base ai quali chiede l’estradizione. Non si sa ancora se l’iter proseguirà convocando tutti nella stessa udienza oppure se le presenze saranno frazionate. Anche perché in relazione alla lunghezza del procedimento il giudice a latere aveva suscitato non poche perplessità chiedendo agli avvocati della difesa: “Non vorrete mica parlare ognuno per due ore?”. Si tratta di parole che rischiano di mettere fortemente in dubbio il diritto di difesa contingentando i tempi degli interventi. Con ogni probabilità al fine di garantire alle difese tutti i loro diritti sarebbe opportuno frazionare le presenze in udienza.
(frank cimini)

Pacchi bomba, assolti pista anarchica distrutta a Genova

Per Natascia Savio e Robert Firozpoor i pm avevano chiesto la condanna a 17 anni, per Giuseppe Bruna 18 anni e 4 mesi. Tutti accusati di terrorismo in relazione ai pacchi bomba intercettati con destinazione due magistrati di Torino è un dirigente del Dap. Si trattava dell’inchiesta Prometeo, pista anarchica, con l’appoggio di tutti i partiti e tutti i giornali. Oggi i giudici di Genova hanno deciso per l’assoluzione. Non hanno commesso il fatto. La pista anarchica non c’è più.
La sentenza arriva dopo due anni e mezzo di carcere duro. I giudici hanno disatteso le richieste di condanna della procura antiterrorismo di Genova dando credito ai difensori che avevano parlato di indagini a senso unico. Dei tre imputati Bruna resta in carcere a causa di un’altra misura cautelare mentre gli altri due sono liberi. Natascia Savio aveva fatto un lungo sciopero della fame perché detenuta in una prigione troppo lontana dal suo difensore Claudio Novaro.
Non è la prima indagine su gruppi anarchici che si rivela un flop. Era già accaduto di recente sia a Roma sia a Bologna, con le misure cautelari annullate dal Riesane e dalla Cassazione.
A Genova è stato necessario arrivare alla sentenza di primo grado davanti alla corte d’Assise. Nel frattempo gli imputati hanno pagato un prezzo altissimo con due anni e mezzo di carcere. Erano stati arrestati nel 2019 con l’accusa di aver confezionato pacchi bomba diretti ai pm torinesi Antonio Rinaudo, noto come grande inquisitore dei NoTav per terrorismo con scarsissimi risultati, e Roberto Sparagna. Il terzo pacco bomba era destinato a Santi Consolo del Dap.
(frank cimini)