giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

12 dicembre bomba fascista depistaggio antifascista

Il libro “strage di stato” fu il simbolo della campagna di controiformazione sull’attentato di piazza Fontana che conteneva un giudizio prettamente politico che ha trovato ampio riscontro nella realtà al di là di quello che sostengono statolatri in servizio permanente effettivo sia di vecchia data sia di più recente investitura da parte dei media.

Ovvio non ci sono prove formali per affermare che uomini dello Stato ordinarono il collocamento della bomba alla sede della Banca nazionale dell’Agricoltura. Furono i fascisti ad agire anche se Freda e Ventura essendo stati già assolti in precedenza non fu possibile processarli ancora per lo stesso fatto e con la stessa imputazione.

Ma iniziò da subito con la manovra repressiva contro gli anarchici un depistaggio di Stato che dura tuttora e di cui sono responsabili apparati investigativi, di intelligence e forze politiche legate a quello che da sempre viene solennemente e pomposamente definito “lo Stato democratico nato dalla Resistenza antifascista”.

Per esempio non è stata valutata fino in fondo la presenza in questura a Milano di dirigenti dei servizi segreti arrivati immediatamente da Roma a coordinare le indagini di cui parlano diffusamente l’avvocato Gabriele Fuga e Enrico Malatini nel libro dal titolo “La finestra e’ ancora aperta” dedicato alla morte dell’anarchico Pino Pinelli.

Quando furono desecretate molte carte negli anni 90 ed emersero quelle presenze dei servizi fino ad allora sconosciute la magistratura non fece il diavolo a quattro per approfondire. Lo Stato non può processare se stesso e si trattava, si tratta del famoso “stato democratico”, anche se a seconda guerra mondiale finita non aveva subito la necessaria defascistizzazione perché gli uomini del ventennio furono utili alla guerra contro i comunisti.

E ancora. Dal momento che era in corso negli anni 70 uno scontro sociale durissimo sfociato in guerra civile a bassa intensità (ma neanche troppo bassa in verità) ai partiti al governo e all’opposizione tutti insieme affratellati diciamo che non sembrò il caso di andare a vedere che cosa era veramente accaduto a piazza Fontana e dintorni.

E fu in quel clima in quel contesto politico che si mise la pietra tombale sul caso di Pino Pinelli. Da un lato non potevano più dire che era stato suicidio ma dall’altro non potevano “infangare” le cosiddette forze dell’ordine di uno stato democratico di aver defenestrato un fermato dopo averlo trattenuto per un tempo superiore ai termini fissati dalla legge.

E così saltò fuori ”il malore attivo” per salvare capra e cavoli firmato da un giudice legato al Pci, Gerardo D’Ambrosio. Si era da due anni in pieno compromesso storico proposto da Berlinguer dopo il golpe cileno. E da lì partirono a livello mediatico una serie di panzane con il commissario Calabresi e Pinelli messi sullo stesso piano, “due brave persone”. Calabresi era il più alto in grado al momento dei fatti, la stanza era la sua. Come minimo sapeva che cosa era accaduto al di là della sua presenza fisica o meno nei metri quadrati dell’interrogatorio. Si guardò bene il poliziotto che alcuni vorrebbero addirittura santo dal raccontare degli 007 venuti dalla capitale. Insomma “il santo” agiva da copertura.

51 anni dopo rispunta il generale Maletti riparato in Sudafrica a dire di aver saputo che Pinelli veniva interrogato sul davanzale della finestra. Uno dei cinque sbirri dell’interrogatorio Vito Panessa intervistato dice: “Pinelli se l’era cercata”.

La bomba fascista fu l’inizio di questa storia senza fine, il resto lo dobbiamo ai disastri dell’antifascismo, al di là dei comunicati di quel carrozzone burocratico e inutile denominato Anpi e dell’operazione mediatica di una ragazzetta assurta a storica perché porta (e porta male) il cognome del padre che si ingegna a dire che no non fu una strage di Stato. Lo Stato in quanto tale non può che essere innocente, la religione di lor signori (frank cimini)

Su Battisti e Cospito il terrorismo dell’antiterrorismo

Questa mattina il quotidiano Repubblica ha dedicato una intera paginata per cercare di bloccare l’iter di una richiesta di permesso inoltrata da Cesare Battisti sulla base del fatto che il giudice di sorveglianza di Ferrara ha riconosciuto all’ex esponente dei Pac 540 giorni di detenzione scontati in più. Il dato sommato alle detenzioni già subite tra Francia, Brasile e Italia cumula una reclusione di 10 anni che permette di accedere ad alcuni benefici tra i quali la possibilità di chiedere un permesso premio.
La richiesta sarà valutata prossimamente e sarà il giudice a decidere la lunghezza e le modalità del permesso. L’articolo del quotidiano fondato da Scalfari ovviamente fa riferimento al fatto che l’eventuale concessione del permesso sarebbe una beffa per i parenti delle vittime.
Va ricordato che Battisti nel percorso di giustizia riparativa (un modello per molti versi oscurantista e reazionario) che ha intrapreso ha chiesto di incontrare i familiari delle vittime anche se questa circostanza non è indispensabile per accedere ai benefici.
Dal carcere di Massa dove Battisti di recente è stato trasferito in modo che i parenti residenti a Grosseto possano fargli visita sono state fatte uscire le informazioni che Repubblica utilizza per “scandalizzare” la pubblica opinione nella prospettiva che Battisti condannato all’ergastolo per fatti di lotta armata avvenuti oltre 40 anni fa possa trascorrere qualche ora, perché di questo si tratta, fuori dalla prigione, nell’ambito del principio di risocializzazione per i detenuti.
Con ogni probabilità nel carcere di Massa c’è qualcuno che cerca di fare carriera e si vende le notizie.
In questo allarmismo generale in materia di terrorismo vanno ricordate le parole usate dal ministero della Giustizia per motivare sulle informazioni comunicate al sottosegretario Andrea Del Mastro in merito alla detenzione dell’anarchico Alfredo Cospito. I funzionari del Dap spiegavano che quelle informazioni era state rubricate “a divulgazione limitata” in relazione a conseguenze di ordine pubblico. Addirittura era stato esplicitato il pericolo di attacchi alle strutture del ministero nell’ambito delle manifestazioni a favore di Cospito. Queste manifestazioni con la partecipazione di qualche centinaio di persone avevano portato a qualche scontro con le forze di polizia e alla rottura di qualche vetrina. Ipotizzare altri fatti molto più gravi e indubbiamente lontanissimi dalla realtà odierna, una repressione senza sovversione, è da irresponsabili e da persone in mala fede che mistificano anche al fine di sentirsi più importanti.
(frank cimini)

Del Mastro a giudizio, conti regolati dentro il potere

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro è stato rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio in relazione a quanto aveva spifferato al collega di partito Giovanni Donzelli sulla detenzione dell’anarchico Alfredo Cospito. Al di là dell’esito processuale che vedrà in aula Del Mastro il prossimo 12 marzo va ricordato che questa è una storia di un regolamento di conti all’interno del potere sulla pelle di un anarchico detenuto e torturato con l’applicazione dell’articolo 41bis.
Il discorso riguarda anche le polemiche sul rinvio a giudizio con la discussione sulle eventuali dimissioni di Del Mastro. Alfredo Cospito con la sua battaglia contro il 41bis combattuta anche con un lunghissimo sciopero della fame durato sei mesi non c’entra assolutamente niente con le beghe di lor signori.
La procura di Roma aveva ribadito la richiesta di prosciogliere del Mastro per mancanza dell’evento sogttivo del reato. Il gup ha deciso diversamente sposando in pratica la stessa linea del gip che aveva imposto l’imputazione coatta.
Intanto il difensore di Cospito l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha depositato il ricorso per Cassazione contro la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva confermato il 41bis. Secondo il legale la sentenza del Tribunale non era motivata soprattutto perché i giudici non si erano confrontati con il parere della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo che aveva chiesto di far uscire Cospito dal 41bis,disponendo la detenzione in regime di alta sorveglianza, appena un gradino inferiore.
Per la Dna la pericolosità di Cospito era regredita e non sussistevano più le ragioni del carcere più duro. Il Tribunale invece decideva diversamente arrivando addirittura ad affermare che con lo sciopero della fame l’anarchico aveva accresciuto il suo carisma diventando ancora più pericoloso. Perché evidentemente la lista anarchica è eterna.
((frank cimini)

Anarchica rischia prendere 11 anni in Ungheria per lesioni

Una militante anarchica milanese rischia di prendere 11 anni di reclusione, questo il patteggiamento prospettato dalla procura, in relazione a lesioni provocate a esponenti di estrema destra nel corso di una contromanifestazione organizzata a Budapest. Ilaria Salis è detenuta dal febbraio scorso e solo in agosto ha potuto incontrare i genitori.
Le lesioni provocate agli avversari politici erano guarite in sette giorni senza che vi fosse denuncia dalle parti offese dal reato. Per gli stessi fatti l’Ungheria ha chiesto la consegna tramite mandato di cattura europeo di un altro anarchico Gabriele Marchesi che ha appena ottenuto gli arresti domiciliari dalla corte di Appello di Milano su parere conforme della procura generale dopo un periodo trascorso nel carcere di San Vittore.
Marchesi non ha prestato il consenso al trasferimento in Ungheria. La difesa rappresentata dagli avvocati Eugenio Losco e Mauro Traini, eccepisce l’insufficiente descrizione dei fatti in relazione ai quali è stato chiesto il consenso. La ricostruzione dell’accusa sarebbe priva della indicazione della condotta personale dell’indagato.
Stando galle accuse delle autorità ungheresi solo per caso le vittime delle aggressione non sarebbero state in pericolo di vita. Gli aggrediti avrebbero riportato lividi sulle teste e sulle gambe. L’aggressione sarebbe avvenuta usando un’asta telescopica, un martello di gomma e spruzzando gas lacrimogeni. Il processo a Budapest inizierà l’anno prossimo. Il 5 dicembre a Milano i giudici decideranno sulla consegna all’Ungheria di Gabriele Marchesi. Considerando l’assenza di querela di parte in Italia il fatto non sarebbe neppure perseguibile. Per cui la corte d’Appello dovrebbe negare il trasferimento di Marchesi a Budapest. E la concessione dei domiciliari già avvenuta va in questa direzione ma il condizionale è d’obbligo.
(frank cimini)

Sette morti da spiegare – indagati vigili, carabinieri e metronotte

Rachid, Soufiane, Haxhi, Simone, Giovanni, Taissir, Marinela.  Sono sette (sempre che non ci siano stati altri casi, non resi noti) le persone morte quest’anno durante operazioni di servizio (canoniche e non) di forze di polizia pubbliche e private (escludendo omicidi volontari in contesti familiari o di coppia e tragedie in carcere.) Cinque decessi sono o sembrano legati a interventi dei carabinieri (con il supporto della polizia municipale in una vicenda), uno rimanda all’azione dei vigili urbani, uno a guardie giurate.

Marinela Murati, Vigevano

L’ultima vittima si chiamava Marinela Murati, aveva 39 anni, una vita complicata e problematiche psichiatriche La mattina del 3 novembre la donna entra nella chiesa della Madonna Pellegrina di Vigevano (nella stessa provincia  dove il 20 luglio 2021 il l’assessore leghista Massimo Adriatici ha ucciso Youns El Boussetaoui, mandato a processo “solo” per eccesso colposo di legittima difesa). Urla, invoca Allah, si inginocchia sul tappeto destinato a un feretro, disturba i fedeli radunati in attesa del funerale. Il parroco non riesce a calmarla e chiama il 112. Accorrono due agenti della polizia municipale. Marinela, diranno, prova a prendere e rovesciare una statua mariana. I vigili la placcano, la ammanettano e la immobilizzano, atterrata a pancia in giù. Un agente, scrive la Stampa, le blocca la testa, asseritamente per impedirle di picchiarla contro il pavimento. L’altro le tiene ferme le gambe. Marinela si sente male, perde conoscenza e muore. I vigili vengono indagati per omicidio colposo, a loro tutela, anche, in attesa dei risultati dell’autopsia. Nel frattempo restano in servizio.

Rachid Nachat, Castelveccana

Il primo nome dell’elenco è quello di Rachid Nachat, 33 anni, spirato il 10 febbraio in fondo a un canalone nel bosco dello spaccio di Castelveccana (Varese).  E stato ucciso, è da capire se per legittima difesa o deliberatamente, da un sottufficiale dei carabinieri in giro con un fucile fuori ordinanza e con due colleghi in borghese, travestiti da cacciatori, a detta loro impegnati in un controllo antidroga. Lo sparatore è il maresciallo capo Mauro Salvadori, comandante del nucleo Radiomobile di Luino, sospeso dal servizio e indagato per ora per omicidio volontario, ipotesi di reato che potrebbe essere modificata o decadere. Sostiene che lo straniero lo teneva sotto tiro con una pistola. Lui prima esplode due colpi con l’arma di servizio, puntando a terra, Poi la Beretta si inceppa e allora usa il fucile a pompa personale che ha con sé, un calibro 12 non di ordinanza, caricato a palle di gomma.  Non si sarebbe accorto di aver colpito l’immigrato e alla schiena. Pensa che sia scappato via. Lo cerca senza trovarlo e rientra in caserma, come se nulla fosse successo. La storiaccia viene fuori a posteriori, dopo la telefonata anonima che segnala un corpo nel bosco e la ricostruzione della perlustrazione tra gli alberi, una “caccia all’uomo”, secondo Marco Romagnoli, uno dei legali del fratello della vittima.

Soufiane Boubagura, Fara Vicentino

Il 24 aprile 2023 a Fara Vicentino (Vicenza) perde la vita Soufiane Boubagura, 28 anni. Cammina scalzo per strada, grida frasi senza senso, inneggia ad Allah, si appende a un camion. Qualcuno avvisa i carabinieri, arriva una gazzella con due militari. Il capo pattuglia usa il taser per provare a neutralizzare lo straniero. Ma la pistola elettrica, dirà poi il comandante della polizia locale, Giovanni Serpellini, “non ha funzionato”.  C’è una colluttazione. L’immigrato riesce a sfilare la pistola d’ordinanza all’altro carabiniere e spara, centrando uno dei due vigli urbani spuntati nel frattempo. Spara anche il capo pattuglia dell’Arma, uccidendo l’uomo prima che possa esplodere altri colpi. La procura indaga il militare (il vicebrigadiere Stefano Marzari) e l’istruttore della polizia locale ferito (Alex Frusti), finito in ospedale in condizioni critiche. Si ipotizza l’eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. La morte estingue i reati addebitabili all’immigrato.

Haxhi Collaku, Padova

Il 14 luglio 2023, a Padova, quattro proiettili sparati da un carabiniere fulminano Haxhi Collaku, ex professore di matematica, stalker della moglie, con un ammonimento del questore. Quel pomeriggio va sotto casa della compagna assediata, la bordo di un furgone. La figlia si preoccupa e attiva i carabinieri. L’uomo scende dal veicolo, si lascia controllare e indentificare. Poi sale, accende il motore e preme sull’acceleratore per lanciare il veicolo contro la pattuglia. Smonta dal furgone, con un coltello in pugno, e si avvicina al militare che ha travolto, con gravi lesioni a una gamba. Il collega gli spara e lo ferisce, lasciandogli pochi minuti di vita. Il comandante dei carabinieri di Padova, Gaetano La Rocca, dichiarerà: «Secondo i primi accertamenti, le procedure adottate dai nostri militari sono state impeccabili e completamente aderenti ai documenti d’azione». Il carabiniere che ha utilizzato la pistola, Vittorio Stabile, è indagato dalla procura per eccesso colposo di legittima difesa.

Simone Di Gregorio, San Giovanni Teatino

A San Giovani Teatino (Chieti), domenica 13 agosto 2023, c’è un uomo che corre nei pressi della ferrovia, nudo, agitato. Si chiama Simone Di Gregorio, ha 35 anni. Anche qui arriva una pattuglia di carabinieri. Per fermarlo i militari usano il taser, a distanza. Uno dei due dardi sembra non vada a bersaglio o l’uomo comunque non si placa. Viene visto prendere a testate una macchina in sosta. Poi è fermato e caricato su una ambulanza. Gli è somministrato un calmante, non è dato sapere da un medico o un barelliere. All’ospedale di Chieti ci entra morto. I rappresentanti delle associazioni Uniarma e Fsp, prima ancora del deposito dei risultati dell’autopsia, sulla base delle prime indiscrezioni escludono che il decesso sia legato all’utilizzo del taser, corretto o improprio che sia stato. Dovrebbe esserci una inchiesta per omicidio colposo. Non è dato sapere se la pistola elettrica sia stata sequestrata e periziata.

Giovanni Sala, Milano

Due vigilantes dell’Italpol, Enrico Scatigno e Dario Vincenzo Carbonaro, sono indagati per la morte di Giovanni “Gianni” Sala di 34 anni e sarebbero state sospesi dal servizio. L’ipotesi di reato è omicidio colposo. Succede tutto nella notte tra il 19 e il 20 agosto. Le telecamere di sorveglianza riprendono la scena, un crudo video rilanciato da Repubblica. Pantaloncini neri, petto nudo, scarpe da ginnastica, l’uomo fa avanti e indietro davanti alla sede Sky di Milano. Sembra alterato. Prova più volte a entrare ed è cacciato via. Torna. Viene atterrato due volte, picchia la testa contro il marciapiede. Un vigilante gli mette un ginocchio sulla schiena, gli si siede sopra e lo immobilizza. Passano sette minuti, il “fermato” smette di respirare. Il collega prova fargli un massaggio cardiaco, ma non serve a niente. E solo a questo punto, troppo tardi, vengono chiamati i soccorritori del 118,- L’autopsia documenta che Giovanni Sala è morto per arresto cardiocircolatorio e non riscontra fatture evidenti o lesioni a livello toracico. “Ciò non vuol dire – rimarca l’avvocato dei familiari, Giuseppe Geraci – che Gianni non sia morto per problemi di soffocamento. Sono state trovate raccolte di sangue, ematomi, sia sotto il collo sia sul viso, alla guancia destra. Questo è indice di una attività pressoria o contusiva”.

 Taissir Sakka, Modena

La penultima vittima, sempre in circostanze tutte da chiarire, è il trentenne tunisino Taissir Sakka. Lui e il fratello Mohamed Alì, sabato 14 ottobre 2023, bevono, disturbano, infastidiscono i clienti del al circolo Arci di Ravarino, in provincia di Modena. I gestori chiamano i carabinieri. I due vengono portati in caserma, schedati, indagati per ubriachezza molesta e rilasciati, poco prima di mezzanotte. Sembrano tranquilli, ripresi dalle telecamere di sorveglianza.  Si separano. Domenica mattina Sakka è trovato senza vita nel parcheggio del dopolavoro ferroviario e del cinema Filmustudio 76 de capoluogo emiliano, il volto tumefatto, una botta alla nuca. Poche ore dopo il fratello va in questura e denuncia che entrambi sono stati picchiati. La procura comunica di aver iscritto nel registro delle notizie di reato sei carabinieri, uno per minacce, lesioni e “morte come conseguenza di altro delitto” (senza precisare quale) e cinque “solo” per lesioni. L’autopsia non evidenzia traumi correlabili al decesso. Pe avere certezze bisognerà aspettare i risultati degli esami in corso, analisi tossicologiche e isto-patologiche. Per gli indagati per questa morte, e per tutte le altre, vale la presunzione di non colpevolezza.

Lorenza Pleuteri, giornalista indipendente e collaboratrice di Osservatoriodiritti.it.