giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

I 90 anni di Lodovico Isolabella, il maestro del “punto nel processo”

 

Lunedì 12 aprile, il Tribunale di Milano ha reso omaggio all’avvocato Lodovico Isolabella, che si appresta, nonostante i 90 anni compiuti a dicembre (è del 1930), a sostenere un importante processo il prossimo 14 maggio.

Evento organizzato presso la Sala del consiglio dell’Ordine dal Presidente Vinicio Nardo e da uno dei tanti ex collaboratori (Davide Steccanella) che in oltre sessant’anni sono passati dallo studio di via Fontana, Isolabella è arrivato con i figli Francesco e Luigi, a loro volta avvocati, dove si erano dati appuntamento alcuni membri storici di quello studio.

Dall’ex giudice Gianfranco Gilardi agli avvocati Giovanni Dedola, Angela Maggi, Francesco Arata, Daniele Benedini, Carlo Baccaredda, Maddalena Padovan, Luca Troyer, fino ad Alessandra Mandolesi, che ancora oggi, dopo 25 anni, lavora con lui.

Ad ascoltare il racconto di aneddoti, processi e vita vissuta con Isolabella erano collegate tantissime persone in diretta zoom e con la pagina FB della Camera Penale di Milano.

Oltre all’ex giudice Armando Spataro e Annalori Ambrosoli, madre di Umberto attuale componente dello studio, sono intervenuti colleghi, amici e tantissimi altri ex, da Fabrizio De Sanna ad Alberto Sanjust, da Giacomo Lunghini a Davide Sangiorgio e da Alessandra Matturri ad Angela Quatraro.

E’ stato proiettato il trailer di una video intervista di Enrico Riccioni dal titolo “La lotta per la libertà” e al termine dell’incontro, durato oltre due ore, Isolabella, che non ha mancato di ricordare i tanti processi fatti ai tempi insieme ai presenti, ha ringraziato tutti, ricordando l’importanza della difesa dell’uomo quale essenza del ruolo dell’avvocato. 

 

“Quando mi presentai nello studio di via Fontana 4, ai tempi più piccolo di quello di oggi, era il settembre del 1987 e c’era un gran fermento di persone che si agitavano intorno a un signore con un’ottocentesca barbetta a punta, il quale si limitò a dirmi “ma questo non è uno studio, è un casino!”, e senza neppure chiedermi chi diavolo fossi mi ordinò di seguirlo mentre si recava con passo rapido al vicino Tribunale, seguito da un codazzo di “praticanti” con borse e faldoni.

Arrivati davanti al grande scalone centrale di corso di Porta Vittoria ci fermammo perché lui si mise a raccogliere delle erbe nell’arida aiuola che sopravvive nel cemento esterno del palazzone e che poco dopo gli vidi poggiare, con enfasi mista a una mezza risata, sul banco solenne del Tribunale riunito per l’udienza.

Non ho mai saputo a cosa servisse produrre erbacce in un processo per reati valutari, ma ricordo che pensai chegli avvocati non dovevano essere tutti necessariamente noiosi e “tromboni” se tra loro c’era uno come lui, e chequel mestiere avrebbe potuto riservare qualche creatività.

Isolabella è stato il mio primo e unico Maestro, “Trova il punto del processo”, era la sua regola, perché diceva che all’interno di ogni causa, anche quella più complessa, si annida sempre il punto decisivo, quello intorno cui ruota il tutto, e che andava trovato studiando pazientemente ogni pagina e incartamento.

Il prezioso archivio web di Radio Radicale consente di riascoltare a distanza di anni l’audio di alcuni grandi processi del secolo scorso e tra questi quello celebrato avanti la Corte di Assise di Milano (presieduta da Antonio Cusumano) per la morte di Sergio Ramelli.

Il 12 maggio 1987, dopo l’intervento del Prof Giandomenico Pisapia, prende la parola l’avvocato Lodovico Isolabella in difesa di due imputati.

A fronte di una responsabilità accertata, il difficile compito del difensore era quello di aiutare una Corte formata da giudici popolari a pervenire a una condanna “giusta” che tenesse in debito conto la realtà storica di un fatto avvenuto 12 anni prima, quando l’intero tessuto sociale, culturale e politico della città era completamente diverso da quello del giorno del tardivo giudizio.

Per tutta la prima parte del suo intervento Lodovico Isolabella si impegna a ricostruire alla Corte con infinita pazienza e l’ausilio di un immenso materiale raccolto quale fosse la Milano del 1975.

E così, una delle migliaia di arringhe in difesa di due delle migliaia di imputati di un conflitto che produsse nel nostro Paese numeri da “guerra civile a bassa intensità” (come ha detto qualcuno), si trasforma in una formidabile lezione di Storia, e stupisce che a tenerla sia chi per tradizioni familiari, culturali e anche generazionali, era quanto di più distante potesse esserci da quel conflitto.

Isolabella inizia raccontando un episodio accaduto a Ramelli mesi prima del suo omicidio all’Istituto tecnico Molinari quando fu cacciato perché fascista e suo padre costretto a passare attraverso la gogna di due cordoni posizionati ai due lati, e senza che nessun rappresentante della Scuola o di altre Istituzioni muovesse un dito a difesa di quel ragazzo e di quel padre.

Questo gli consente di ricostruire il 1975 a Milano in termini di realtà e solo al termine di quell’immane sforzo di memoria Isolabella può affermare a gran voce una grande verità, e cioè che nella richiesta di pene esemplari per quei pochi imputati, il Pubblico Ministero, lo Stato e la stessa opinione pubblica, in realtà assolvono le proprie coscienze da un’accusa ben più grave: quella di avere contribuito a far si che quella gigantesca tensione sfociasse in quei singoli delitti e non viceversa.

E nello straordinario richiamo al processo di Norimberga, Isolabella punta il dito contro la sempiterna pretesa del vincitore di processare, applicando codici propri, il vinto, il quale di codici propri ne aveva altri, per arrivare a concludere in modo apparentemente provocatorio (ma non lo era) che: “Questi ragazzi che uccidevano rincorrevano la vita e non la morte!”.

Io credo che l’esito del processo di primo grado abbia recepito, con quella sentenza che definiva “oltre l’intenzione degli imputati” la morte di Ramelli, il significato più profondo della straordinaria arringa di Isolabella.

Mentre ascoltavo la prima parte di quella arringa mi riempiva di orgoglio pensare di avere avuto il privilegio di lavorare per anni a stretto gomito con una persona così”.

Davide Steccanella

 

 

 

 

 

 

C’è sempre una pista anarchica ovunque e comunque

C’è sempre una pista anarchica, ovunque e comunque. A Torino, dove la procura aveva invano tentato di trasformare l’incendio di un compressore in un atto di terrorismo, il prossimo 21 aprile il tribunale di sorveglianza dovrà decidere su richiesta dei pm se applicare a Marco Boba la misura della sorveglianza speciale e tra gli elementi da valutare c’è un libro scritto sei anni fa dal titolo “Io non sono come voi”. “Io ho odio dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mie sono pulsioni nichiliste” si legge nel romanzo che dovrebbe costare a chi l’ha scritto secondo la procura una forte limitazione della libertà. Non il carcere perché per quello non c’è abbastanza. Ma un prezzo il redattore di Radio Black Out, occupante di El Paso, esponente del movimento anarchico, deve evidentemente pagare.
Da Torino a Roma dove il Riesame su input della Cassazione ha cancellato l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo per quattro anarchici arrestati a giugno dell’anno scorso. Siccome il reato più grave era già stato annullato per Francesca Cerrone siamo davanti all’ennesima inchiesta flop sugli anarchici analoga a quella di Bologna.
Marco Boba, 53 anni, in passato aveva scontato diversi periodi detenzione per la sua partecipazione alle lotte sociali. A quanto pare non è sufficiente scontare le condanne ma è anche necessario abiurare la propria identità la propria appartenenza e dimostrare di aver assorbito un’altra idea, quella del silenzio e della rassegnazione.
Nel romanzo l’alter ego di Boba dice: “Per la società per il sistema io sono un violento ma ti assicuro che per indole sono una persona tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta”.
La misura della sorveglianza speciale risale ai tempi del fascismo ma viene usata spesso anche in democrazia o democratura a seconda dei punti di vista. Il provvedimento si concretizza in un serie di divieti che cancellano relazioni amicizie affetti nel nome della cosiddetta pericolosità sociale. La refrattarietà a piegare la testa è prova di pericolosità sociale secondo la procura già responsabile insieme al tribunale della vicenda di Dana Laureola da nove mesi in carcere con la prospettiva di restarci fino a due anni per aver parlato con il megafono durante una mafistazione dei NoTav in autostrada.
A Roma invece della mega operazione “antiterrorismo” del giugno scorso non resta quasi niente. Il reato associativo è stato spazzato via su indicazione della Cassazione. In carcere resta solo Claudio Zaccone per una presunta azione contro una caserma dei carabinieri ma anche per lui l’accusa di aver agito con fini di eversione dell’ordine democratico è caduta.
Daniele Cortelli, Flavia Di Giannantonio e Nico Aurigemma sono stati scarcerati. Prima la Cassazione e poi il Riesame hanno dato ragione al difensore Ettore Grenci secondo il quale il blitz era stato una repressione del dissenso sociale e politico. Si trattava di manifestazioni in solidarietà con i detenuti alle prese con l’emergenza Covid fatte tra l’altro con l’uso di mascherine e rispettando le distanze tra le persone.
Le procure però sembrano non curarsi dei paletti più volte fissati dalla Cassazione in materia di terrorismo nel senso che non basta l’adesione astratta a una ideologia per far scattare le manette. I servizi di sicurezza poi ci hanno messo il carico presentando le operazioni flop di Bologna e di Roma nella relazione annuale come grandi successi investigativi. Al pari dell’estradizione dalla Spagna di Francesca Cerrone che adesso dell’intero castello di accuse deve fronteggiare solo il presunto furto di cemento del valore di 30 euro. Dopo aver fatto nove mesi di galera praticamente gratis. (frank cimini)

Cade accusa di terrorismo per altri 4 anarchici romani

È caduta l’accusa di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo per altri quattro anarchici romani arrestati a giugno dell’anno scorso. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Roma al quale la Cassazione aveva rimandato indietro gli atti spiegando che la mera adesione all’ideologia anarchica non basta per contestare l’aggravante di aver agito con fini di eversione dell’ordine democratico.

L’accusa di terrorismo cade per Claudio Zaccone, Daniele Cortelli, Flavia di Giannantonio e  Nico Aurigemma. Sono stati tutti scarcerati a eccezione di Zaccone che resta detenuto per un’azione contro una caserma dei carabinieri.

In precedenza era stata scarcerata Francesca Cerrone. L’operazione del giugno scorso si rivela sempre di più come un flop investigativo nonostante fosse stata citata come un successo nella relazione annuale dei servizi di sicurezza.

Va ricordata la storia di una analoga operazione avvenuta a Bologna nel maggio dell’anno scorso con scarcerazione da parte del Riesame di tutti gli anarchici dopo tre settimane.

A scoprire gli altarini nel caso di Roma è stata ancora una volta la Cassazione che già in passato aveva avuto modo di fissare paletti ben precisi in relazione all’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo.  Ma gli uffici inquirenti della magistratura e quelli della Digos sembrano proseguire imperterriti per la loro strada di fatto criminalizzando manifestazioni di dissenso come quelle organizzate sotto le carceri in solidarietà con i detenuti alle prese con l’emergenza Covid.

Francesca Cerrone aveva scontato nove mesi di custodia cautelare e dell’accusa a suo carico resta solo il presunto furto di sacchi di cemento del valore di 30 euro. Per capire il contesto politico di queste inchieste va ricordato che Nico Aurigemma si era visto negare il permesso di colloquio con i genitori e la sorella perché il pm esprimendo parere contrario aveva indicato tra i motivi il fatto che il giovane si era avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia. Cioè Aurigemma per aver esercitato il suo diritto di indagato si vedeva negare un diritto da detenuto. (frank cimini)

 

Tra pm e tribunale pace ridicola toppa peggio del buco

Prima scatenano la guerra sulla sentenza di assoluzione del caso Eni-Nigeria dicendone di tutti i colori a carico degli interlocutori poi cercano di fare marcia indietro con una riunione che partorisce un comunicato “di pace”. È la storia degli ultimi giorni dei rapporti tra la procura e il Tribunale di Milano.

”La giurisdizione milanese ha sempre rispettato e valorizzato i principi costituzionali del giusto processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale, della funzione del pm come organo di giustizia che dunque non vince e non perde i processi ma in conformità alle norme li istruisce” si legge nella nota a firma del presidente del Tribunale Roberto Bichi cofirmata dal procuratore Francesco Greco dal presidente della sezione misure di sorveglianza Fabio Roia dal numero uno dei gip Aurelio Barazzetta e dagli aggiunti Maurizio Romanelli e Eugenio Fusco.

Insomma questi signori in toga vorrebbero farci credere che non era accaduto nulla. Una riedizione di quanto gridava il mitico Everardo Della Noce durante latrasmissione “Quelli che il calcio”. “… ma alla fine non è successo niente”.

Eppure la mitica procura che fu di Mani pulite aveva spedito ai colleghi di Brescia competenti a indagare sui magistrati di Milano le parole di un testimone largamente inattendibile secondo il quale due avvocati patrocinatori di Eni  Nerio Diodà e Paola Severino ex ministro della giustizia avrebbero avuto “accesso” al presidente del Tribunale Marco Tremolada.

Brescia archiviava senza fare iscrizioni al registro degli indagati e senza interrogare nessuno. D’altronde si trattava di cosa senza fondamento. Ma proprio per questa ragione la mossa della procura era stata gravissima. E infatti il presidente Bichi aveva preso una posizione netta mettendo nero su bianco la parola “insinuazioni”.

Adesso arrivano i tarallucci e vino, la voglia di metterci una pietra sopra al fine di evitare ulteriori imbarazzi. Ma resta che la procura si era mossa come il classico elefante in cristalleria. Nonostante il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale in sede di requisitoria con grande onestà avesse affermato “qui sia chiaro non c’è la pistola fumante”. La richiesta di condanna poggiava su una sorta di prova logica nell’ambito del cosiddetto rito ambrosiano nato con Main pulite.

I giudici hanno deciso di assolvere e non si tratta certo del primo processo in tema di corruzione internazionale in cui la tesi dei pm di Milano è stata sconfitta. Anche se il comunicato congiunto quello della “pace” dice di non voler sentire di processi vinti e persi. La toppa è peggio del buco.

(frank cimini)

Libera anarchica Cerrone dopo 9 mesi di galera gratis

È stata scarcerata ieri sera senza alcun obbligo da rispettare a livello cautelare l’anarchica Francesca Cerrone accusata di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo, arrestata in Spagna estradata in Italia e trattenuta in cella dal Tribunale del Riesame. A dicembre dell’anno scorso la Cassazione annullava l’ordinanza di arresto rinviando gli atti al Riesame per una nuova udienza ma impiegando oltre tre mesi per depositare le motivazioni.
E in questo modo si è arrivati alla svarcerazionela scarcerazio e senza imporre alcun obbligo. Al momento dell’arresto Cerrone era stata indicata come una sorta di pericolo pubblico numero uno insieme ad altri quattro anarchici. Anche loro ricorrevano al Riesame che manteneva l’accusa e il provvedimento restrittivo. La Cassazione a novembre decideva di annullare le ordinanze e di farle riesaminare dal Tribunale di Roma. Anche in questo caso la riserva dei giudici della Suprema Corte si allungava fino a quattro mesi. Ora ci sono le motivazioni affinché si svolga una nuova udienza.

La Cassazione ribadisce che non basta la mera adesione ideologica ma c’è bisogno di  azioni e contributi concreti per sostenere l’accusa di terrorismo. I giudici per esempio “rimproverano” il Riesame per aver sopravvalutato l’accensione di alcuni fumogeni durante un sit-in davanti al carcere di Rebibbia in solidarietà con i detenuti alle prese con l’emergenza Covid.

La Cassazione inoltre ridicolizza i giudici di merito che si erano aggrappati persino al potenziale sovversivo della musica in occasione del festival hiphop.

Dalle motivazioni della Cassazione, e non è la prima volta, emerge che le procure e i giudici territoriali praticano una sorta di emergenza infinita che mette a rischio fortemente il diritto al dissenso. Del resto l’indagine bolognese condotta dal pm Dambruoso era stata del tutto azzerata dalla Suprema Corte. E anche lì si trattava di manifestazioni a favore dei detenuti con mascherine e rispetto delle distanze.

E bisogna ricordare che nella relazione annuale dei servizi di sicurezza sia l’operazione di Bologna “Ritrovo” sia quella romana “Bystrock” erano state presentate come successi investigativi nonostante i ribaltamenti della Cassazione che in questi ultimi giorni si sono ulteriormente concretizzati. Anche se i giornaloni non ne parlano. In pratica sono fermi al giorno degli arresti alle conferenze stampa degli inquirenti e all’estradizione di Francesca Cerrone altro “successo”. (frank cimini)