giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La rivolta dei direttori contro le possibili carceri comandate dalla polizia

E’ in atto, anche se per ora sottotraccia, la rivolta dei direttori delle carceri italiane contro la possibile riforma che  gli toglierebbe molti poteri a vantaggio dei comandanti della polizia penitenziaria nell’amministrazione degli istituti di pena. Anche l’Unione delle Camere Penali e il portavoce del Garante dei detenuti si sono espressi contro la possibile approvazione definitiva, entro il 30 ottobre, di un decreto legislativo del governo in materia di revisione dei ruoli delle forze di polizia che potrebbe mutare in modo radicale i rapporti di potere all’interno delle carceri.

“Depotenziare il nostro ruolo – scrivono oltre cento  dirigenti penitenziari in una missiva a Franco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria – sottraendogli alcune prerogative fondamentali per governare con i necessari equilibrio e terzietà la difficile e complessa realtà penitenziaria significa creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali, senza, di contro, lasciarne intravedere i vantaggi; significa minare la governabilità degli istituti, attesa la indefettibile funzione di coordinamento del Direttore rispetto alla coesistenze delle diverse istanze interne al ‘sistema’ carcere (trattamentali, amministrative, contabili) che devono necessariamente interagire con quelle di sicurezza e i cui operatori non possono, ovviamente, riferirsi al Comandante di Reparto quale loro vertice”. Inoltre, secondo i direttori si metteranno a rischio quei “principi di equità e umanità” affidati dal legislatore ai vertici degli istituti, sulla base anche di quanto sancito dalla Costituzione. “Spesso a guidare le carceri sono vicedirettori con una delega. Quello che potrebbe succedere – immagina Alessandra Naldi, ex garante dei detenuti del Comune di Milano – è che queste figure sarebbero subordinate ai comandanti della polizia giudiziaria”

Netta l’avversione espressa in una nota anche dall’Unione delle Camere Penali secondo la quale “affidare al Corpo di Polizia Penitenziaria il potere disciplinare, della valutazione dirigenziale, della partecipazione alle commissioni selettive del personale e ai consigli di disciplina significa far regredire il sistema penitenziario a un’idea del carcere esclusivamente punitiva, annullando la figura del Direttore che possa mediare tra le esigenze trattamentali e quelle si sicurezza”. “Preoccupazione” viene manifestata pure dal portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasia, che sottolinea come ai direttori verrebbe anche tolta “la valutazione di ultima istanza nell’uso delle armi prevista dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario”. “Dare più poteri ai comandanti delle forze di polizia – commenta Eugenio Losco della Camera Penale di Milano – significherebbe  andare ancora di più nella direzione di una eccessiva severità delle carceri”. (manuela d’alessandro)

 

 

“Figli della catastrofi”, l’amicizia tra un ex Br e un bandito della Comasina

 

Due vite parallele che si incrociano fino a saldarsi in un’amicizia profonda in carcere  e ora in un libro in uscita, ‘Figli delle catastrofi’, edito da ‘Le milieu’.  Le firme sono quelle di due protagonisti della storia criminale italiana del secolo scorso che stanno scontando l’ergastolo: Giorgio Panizzari, uno dei 13 reclusi di cui le Brigate Rosse, a cui apparteneva,  chiesero la liberazione in cambio del rilascio di Aldo Moro, e Tino Stefanini, ex componente della ‘banda Vallanzasca’, uno dei gruppi militari più feroci degli  anni Settanta.

“Siamo in due piani diversi,  ma ci aprono al mattino attorno alle 7 e la chiusura è alle 20, 30, così abbiamo modo di trascorrere il più tempo insieme, discorrendo a volte del nostro trascorso, leccandoci a vicenda delle ferite indelebili di quel gruppo di amici che non sono più con noi, raccontandoci a vicenda di quella malavita che è finita e noi, sopravvissuti in via d’estinzione! Magari davanti a un piatto di aglio, olio e peperoncino”.

Carcere di Bollate, autunno 2019, nella stessa sezione in cui è rinchiuso anche Renato Vallanzasca, il capo della banda che atterriva Milano. Questa scena intima e idilliaca arriva dopo  duecento pagine gonfie di turbolenze e azione in quella breve ma intensa parte delle loro vite in libertà perché  due terzi dell’esistenza l’hanno trascorsa in carcere. Il racconto è lucido, senza sconti, come quando Panizzari, oggi 70enne,  ricorda l’amico Martino Zicchitella, “che non era un uomo da situazioni ordinarie”, morto nel corso del fallito attentato al questore anti – terrorismo Alfonso Noce. “Coloro che l’hanno conosciuto bene, sanno bene che Martino non avrebbe voluto una morte diversa e io – aggiunge con orgoglio – l’ho conosciuto bene!”.

Quando gli venne negato il permesso di recarsi a dare l’ultimo saluto all’amico Agrippino che stava morendo, Panizzari provò a chiedere la semilibertà al giudice che gli chiese: “Lei cosa pensa oggi dei familiari di quella vittima che tanti anni fa ha ucciso?”. Lui rispose che non aveva ucciso nessuno e che non gli sembrava serio chiedere scusa 40 anni dopo a chi aveva subito un lutto così straziante solo perché in quel momento chiedeva un beneficio penitenziario. Il giudice, contro il parere del procuratore generale, gli concesse la semilibertà.

La vita di Tino “è stata un cumulo di pene iniziato dal 1970, da una condanna ancora minorenne con un susseguirsi infinito di reati sempre più gravi. Una vita trascorsa da sparatorie, evasioni, violenza, arresti e i benefici previsti dalle leggi che mi lasciavano ogni tanto qualche spiraglio di libertà”.  “Questo libro non inneggia  a nulla”, scrive nella prefazione l’avvocato Davide Steccanella, difensore di Panizzari ed esperto di terrorismo, spiegando che  il testo nasce dal “rispetto reciproco per le lotte portate avanti attraverso la rivolta contro la spersonalizzazione, contro un sistema repressivo, mai domi, sempre pronti ad urlare le loro ragioni”.  Panizzari scrive di essere stato trasferito in poco più di un anno “17 volte quasi sempre nelle carceri e case penali più infami del Paese; mi furono negati i colloqui con la mia convivente, mi furono ostacolati – quando non resi impossibili – i colloqui con gli avvocati. Presentai decine di esposti…fui ignorato. Le lotte in carcere imperversavano. Molti studenti, compagni operai, erano entrati in carcere, si fraternizzava e si parlava. Si discuteva di tutto, specie con quelli di Lotta Continua”.

E’ questo il momento in cui cambia la sua vita: “Se volevano prendersi la mia vita intera condannandomi all’ergastolo, io avrei preso la loro. Stavano nascendo i Nuclei Armati Proletari”. C’è spazio anche per l’episodio del sequestro di un agente della polizia penitenziaria nel manicomio di Aversa “col direttore che ci propose che ci avrebbe fatto risultare un cancro e uscire per malattia” se avessimo consegnato l’ostaggio. Panizzari venne poi condannato a due anni e otto  mesi con l’attenuante di avere agito per ‘motivi di valore morale e sociale’, cioè la volontà di denunciare le violenze nel manicomio . E per la storia della grazia ricevuta dall’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e poi revocata in seguito a un nuovo arresto per una rapina organizzata – questa la versione di Panizzari –   per pagare le cure alla compagna malata. Amara la conclusione di Stefanini che spiega “gli enormi cambiamenti nel sottobosco della malavita” con la “nuova generazione diventa egoista, che pensa al proprio orticello fregandosene di tutto ciò che la circonda; nella maggior parte dei casi escono ‘pentiti’ o collaboratori di giustizia, approfittando degli sconti di pena. Ben pochi pensano alle famiglie o a mantenere in carcere i coimputati che non hanno fatto la spia”.

(manuela d’alessandro)

“Per gay e lesbiche ci vorrebbe Hitler”
Pm: non sono reato gli insulti a Stella Manente

 

Durante l’ultimo Pride, contro gay e lesbiche evocò Hitler sul suo profilo Instagram da 196mila follower. Perché – poverina! – il corteo vicino alla stazione Centrale di Milano stava rallentando il suo cammino verso il Frecciarossa che la portava a Venezia. Ideona. Un mare di proteste sui social. Gli attacchi di Cristiano Malgioglio. Gli sponsor che la mollano. Le scuse, la mattina dopo, in un video con cui dice di aver sbagliato, anzi “enormemente sbagliato”. Poi il nuovo ripensamento: una bella denuncia contro tutti coloro che l’avevano insultata commentando a caldo il suo video simpatinazista. Ora arriva la mazzata finale: la procura di Milano ritiene che chi l’ha insultata non è perseguibile penalmente, avendo agito in risposta a un comportamento ingiusto.
La modella, o influencer, o starlette dei social, biondissima, bellissima, 27enne Stella Manente (è il suo vero nome) aveva sporto denuncia per tre ipotesi di reato: diffamazione, minaccia aggravata e molestie nei confronti di alcuni commentatori social scatenati dopo il suo video in cui, attraversando controcorrente il corteo del Pride, protestava pronunciando una cosetta come “sto perdendo il treno per colpa di ‘sta massa di ignoranti… andate tutti a morire! Sarebbe dovuto esistere Hitler! Perché non esiste più Hitler?”. Forse ignara del fatto che quel tale Hitler fece internare almeno 50mila omosessuali, segnalandoli con un triangolo rosa (uomini) o nero (donne) cucito sul petto e sterminandone un numero imprecisato.
“Non sapevo nemmeno dell’esistenza di questo gay pride”, si era giustificata lei nel video di scuse. Salvo poi, appunto, denunciare chi l’aveva attaccata.
A meno di quattro mesi dall’iniziativa giudiziaria della Manente, il pm di Milano Mauro Clerici, ai cui validi collaboratori non è certo venuta la tentazione di lasciare il fascicolo in fondo alla pila delle incombenze, chiede l’archiviazione rilevando che “il comportamento della denunciante costituisce palesemente un fatto ingiusto perché evocare ad alta voce Hitler nel corso di una manifestazione quale il Gay Pride significa evocare e giustificare le persecuzioni naziste contro gli omosessuali. (Manente, ndr) inoltre ha dato ulteriore seguito dandovi pubblicità su Instagram e pertanto le numerose persone che hanno reagito a tale condotta, contro cui viene presentata denuncia, appaiono giustificate dal disposto di cui all’art. 599 c.p.”. Ovvero la provocazione. Scriminati perché provocati.
Tra l’altro, precisa la procura, Stella Manente se la prende con messaggi diffamatori postati da sconosciuti “sui social network e su blog, in particolare Instagram, tutti americani”: impossibile ottenere la collaborazione dagli Stati Uniti per identificare gli autori dei messaggi su un caso di questo genere. Esercitare l’azione penale, è impossibile. La procura ritiene “infondata la notizia di reato”.
Conclusione della storia: oggi la modella, con le sue stories di Instagram, ha oltre 26mila fan in più rispetto a luglio scorso. E’ a quota 222mila. Forse, tutto sommato, per la Stella di Instagram, l’ideona era un’ideona davvero.

La gioia del primo ostativo ‘libero’: ora tutti hanno una chanche

E’ stato, nell’agosto del 2018, il primo ergastolano ostativo a cui è stata concessa la liberazione condizionale. Dopo la sentenza della Consulta, il pensiero di Carmelo Musumeci corre a chi è ancora dentro: “Sono contento pensando ai miei ex compagni, finalmente hanno una speranza concreta di futuro, una possibilità che dipende dal percorso che faranno  e dai magistrati di sorveglianza. Per me è il momento di tirare un sospiro di sollievo, è come se mi sentissi meno in colpa di avercela fatta. Un po’ come se mi stessi scrollando di dosso un po’ di carcere, anche se il carcere non mi abbandonerà mai”. Musumeci, 64 anni, ne ha trascorsi 27 da recluso. In carcere, si è laureato e ha scritto tanti libri, tra cui ‘Gli ergastolani senza scampo’ assieme al docente di diritto costituzionale Andrea Pugiotto, un testo diventato una sorta di manifesto per quelli che lui ha definito gli ‘uomini ombra’ destinati a vivere una vita intere senza scorgere la luce. Nell’ordinanza con cui gli hanno concesso la liberazione condizionale, i giudici hanno preso atto di “un grande percorso di crescita personale e del suo essere un uomo nuovo che si riscatta dal passato, impegnandosi quotidianamente ad assistere i disabili”. “Sono convinto che la decisione della Consulta possa essere decisiva per sconfiggere i fenomeni criminali. La speranza è l’arma più efficace per combatterli. Prima sapevi di stare dentro per sempre, perché cambiare? Ora non è più la legge a dirti che sei irrecuperabile, ma sarà un magistrato a stabilire se lo sei o meno. In precedenza, il giudice aveva le mani legate, anche se vedeva un cambiamento meritevole di essere premiato. Penso soprattutto ai ‘giovani’ ergastolani, quelli entrati giovanissimi che ora hanno 50 anni dopo una vita dentro. Adesso possono sperare. Il mio sogno è l’abolizione dell’ergastolo, che tutti nel certificato di detenzione abbiano scritta una data di inizio e una di fine e che al mattino, sul calendario, possano contare quanti giorni gli mancano”.

(manuela d’alessandro)

Consigliere multato per striscione antirazzista ricorre contro Comune

“Milano città aperta ma dice no alle adunate fasciste e razziste”. Per avere esposto questo striscione dal proprio ufficio in occasione del raduno sovranista organizzato da Matteo Salvini, il consigliere comunale Basilio Rizzo, storico esponente della sinistra cittadina, si è visto recapitare una multa di 500 euro (massimo edittale) dalla Polizia Locale. L’accusa è quella di avere violato il Regolamento del Decoro Urbano del Comune.

Ora, assistito da un pool di otto avvocati (Stefano Nespor, Federico Boezio, Laura Hoesch, Monica Gambirasio,  Mario Fezzi, Giovanni Cocco, Davide Steccanella, Maurizio Zoppolato), Rizzo ha depositato nei giorni scorsi un ricorso contro il ‘suo’ Comune ‘nella persona del sindaco Giuseppe Sala’  per ottenere dal Tribunale  l’annullamento dell’ordinanza di ingiunzione che gli è stata notificata il 10 settembre. Nel documento sottoposto all’attenzione dei magistrati, viene spiegato che, prima dell’inizio della manifestazione del 18 maggio a cui hanno aderito diversi leader sovranisti europei, Rizzo era stati invitato dal Presidente del consiglio comunale Lamberto Bertolé e dal vicesindaco Anna Scavuzzo a ritirare lo striscione esposto sul balcone del suo ufficio nella Galleria Vittoria Emanuele firmato  ‘Milano in Comune’, la lista civica di cui è unico rappresentante a Palazzo Marino. “Lo striscione non è offensivo e ripropone valori in cui Milano ha sempre creduto”, si era rifiutato Rizzo che, il giorno dopo, non aveva più ritrovato il vessillo. Il 20 giugno è stato convocato dalla Polizia Locale per essere sentito come persona informata sui fatti “con un riferimento a un imprecisato reato”. Qualche giorno dopo avere ribadito di essere lui il responsabile dell’esposizione e di non averlo rimosso “perché  penso che non fosse motivo di tensione ma di civile manifestazione del pensiero”, Rizzo si è visto notificare il verbale di sequestro . “Questa scritta – argomentano i legali – esprime valori costituzionali: la libertà, l’uguaglianza e l’antifascismo che, in quanto tali devono essere condivisi da tutta la comunità nazionale. E’ evidente che esporre uno striscione che inneggia a questi valori non può in alcun modo aver provocato ‘allarme sociale nella comunità’.  Inoltre, per i legali non sarebbe stato aggirato il Regolamento comunale perché non è stato violato il ‘divieto di imbrattare e deturpare segnaletica e manufatti nelle aree pubbliche’. (manuela d’alessandro)