giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Giudice milanese, le toghe non hanno immunità, accettino le critiche

 

Sì, criticare un magistrato si può, anche utilizzando espressioni corrosive e iperboliche. Viene da dire grazie al giudice milanese Maria Teresa Guadagnino che, in fondo, dice l’ovvio perché non fa altro che esaltare la nostra Costituzione nei suoi valori di libertà più preziosi. Ma lo dice in un modo così efficace da far diventare la sua sentenza di assoluzione nei confronti di Giuliano Ferrara, accusato di avere diffamato il pm Antonino Di Matteo, un ‘manifesto’ del diritto alla critica giudiziaria. A definirla proprio così è lo stesso magistrato in un passaggio delle sue motivazioni: “E’ evidente che la libertà, riconosciuta dall’articolo 21 della Costituzione e dall’articolo 10 della Cedu, di manifestazione del pensiero e di formulazione di critica nei confronti di chi esercita funzioni pubbliche comprenda il diritto di critica giudiziaria, ossia l’espressione di dissenso, anche aspro e veemente, nei confronti dell’operato di magistrati i quali, in quanto tali, non godono di alcuna immunità, nonché degli atti da costoro compiuti”. Il fondatore del ‘Foglio, nell’articolo pubblicato sul quotidiano il 22 gennaio 2014, dal titolo ‘Riina: lo Stato come agente provocatore’, tra le altre cose aveva definito i colloqui tra il boss Salvatore Riina e Alberto Lorusso, compagna d’aria del ‘capo dei capi’ a Opera, come “una spaventosa messa in scena” architettata “da qualche settore d’apparato dello Stato italiano per mostrificare il Presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi e monumentalizzare Di Matteo e il suo traballante processo”.

“E’ assolutamente lecito – argomenta Guadagnino, già nel collegio che condannò Silvio Berlusconi per la vicenda Mediaset – che un giornalista esprima la propria opinione in merito a un processo così rilevante, anche sotto il profilo politico, criticando metodi utilizzati e/o risultati ottenuti dai magistrati. In tal senso, non appare censurabile il riferimento nell’ultima parte dell’articolo al ‘rito palermitano’ e alla ritenuta mancanza di serietà delle inchieste giudiziarie”. Per il magistrato milanese che lo ha assolto, “il giornalismo scomodo e polemico di Ferrara, certamente non privo di espressioni allusive e iperboliche e di espedienti retorici, non persegue l’obiettivo di ledere l’onore e la reputazione della persona offesa, ma solo quello di disapprovare alcuni fatti e comportamenti connessi al processo che ancora si sta svolgendo davanti alla Corte d’Assise di Palermo”. (manuela d’alessandro)

motivazioni assoluzione Ferrara

 

 

Ferrara in aula scatenato contro Di Matteo: “La sua inchiesta ha deformato il cammino della giustizia”

E’ un Giuliano Ferrara “sulfureo” (definizione sua), vecchio animale da talk show liberato in un’aula di Tribunale, quello che si difende dall’accusa di diffamazione  per avere definito, tra le altre cose, una “spaventosa messa in scena predisposta e avviata per perseguire finalità politiche” l’indagine Stato – Mafia condotta dal pm di Palermo Antonino Di Matteo.

“I processi contro i giornalisti si fanno nella Turchia di Erdogan, non in Italia dove si risponde solo per l’ articolo contestato “. Col tocco duro da padrone del salotto, zittisce così il legale di Di Matteo,  l’avvocato Roberta Pezzano, mentre prova a mettere in fila tutti i corsivi malvagi scritti in passato dal fondatore del ‘Foglio’ contro il suo assistito.  Ma la sensazione è che qui davvero si celebri un processo all’inchiesta palermitana con Ferara che divide le squadre in campo: “Da una parte ci sono gli italiani che dicono che un potere segreto dello Stato ha alimentato il rapporto con la mafia, dall’altra chi pensa, come me, che fosse in atto una campagna politica  e civile attraverso Ingroia e Di Matteo e delle piattaforme di ridondanza che deformava il cammino della giustizia”. Ce l’ha in particolare con le intercettazioni carpite nel carcere di Opera tra Totò Riina e Alberto Lo Russo, presunto affiliato alla Sacra Corona a un certo punto affiancato al boss in regime di 41 bis e sospettato da Ferarra di appartenere ai servizi: “Alcune dichiarazioni erano sicuramente reali quando Riina dice di voler uccidere un magistrato, altre erano una messa in scena, come quelle che riguardano Napolitano , prive di qualunque elemento probatorio, ma entravano nella campagna alimentata non tanto da Di Matteo, quanto da alcuni ambienti politici”.  E ancora: “Quando si mettono in mezzo Napolitano, il generale Mori e De Gennaro, il braccio armato di Falcone, c’è qualcosa che non va nell’amministrazione della giustizia. Se per assatanati in toga si intendono i magistrati che fiancheggiano partito o movimenti politici allora sì, Di Matteo lo è “. Ma, per l”elefantino’ (firma della casa sul ‘Foglio’), “non c’è ombra di diffamazione. Penso che a Di Matteo abbia dato fastidio il linguaggio incontinente che ho usato e l’interpretazione che ho dato, che ci fosse  un pregiudizio sfavorevole del suo lavoro di magistrato e del suo prolungamento politico, la sua vocazione civile, per non dire etica, a fare di questo processo il processo della sua vita e della sua carriera di magistrato”.

(manuela d’alessandro)