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Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Il giudice di Milano manda all’aria l’accordo Renzi – Procura per il miliardo ‘salva Ilva’

 

Matteo Renzi e Francesco Greco non avevano considerato quel giudice che ha fama di ‘dura’ e che a sorpresa, quando era molto giovane, si era già guadagnata lo stupore generale prosciogliendo Silvio Berlusconi per il caso Mediatrade.

A novembre l’allora premier, in piena ansia referendaria, e il procuratore capo di Milano, cui non mancano doti di fine mediatore, avevano annunciato l’accordo con la famiglia Riva per il rientro del miliardo e trecento milioni bloccato da anni in Svizzera e frutto di evasione fiscale. Soldi da destinare al risanamento dell’azienda siderurgica tarantina.

In cambio, questo non si era detto in modo esplicito ma era chiaro, le procure di Milano e Taranto si impegnavano ad ‘ammorbidire’ la posizione giudiziaria degli eredi di Emilio Riva.  Detto fatto, la Procura milanese concordava coi legali di Adriano, Fabio e Nicola Riva pene comprese tra i 2 anni e mezzo e i 5 anni per reati, a vario titolo, di bancarotta, truffa ai danni dello Stato, intestamento fittizio di valori.

Troppo basse  “a fronte della gravità dei fatti” per il giudice Maria Vicidomini. Nella sua ordinanza ritiene non congruo anche il miliardo e trecento milioni messo sul piatto dai Riva che, oltre tutto, fa gola anche alla magistratura pugliese per altri processi.

E il magistrato sembra far proprie anche le proteste delle parti civili nei vari procedimenti aperti che scenderanno in piazza a Taranto contro i patteggiamenti tra qualche giorno quando scrive che l’intesa benedetta da governo e procure rappresenta “un accordo omnicomprensivo che, raggruppando in maniera generica una molteplicità di reciproche rinunce ad azioni esercitabili in sede civile, amministrativa e penale, rischia di tradursi in una sotanziale e totalizzante abdicazione, non solo da parte degli imputati ma anche del commissario straordinario di Ilva spa e del curatore speciale di Riva Fire alla tutela di molteplici e variegati interessi che richiederebbero altre forme di salvaguardia”.

“Ora si rischia la paralisi, per Taranto non è un bel giorno”, commenta un avvocato vicino alla società. Tutto può ancora accadere ma non si poteva aspettare la ratifica del patteggiamento prima di illudere una città e dei lavoratori già così provati? Eppure c’era un precedente. Nel novenbre del 2015, la ‘salva Ilva’ di Renzi si era schiantata contro il Tribunale federale di Bellinzona che aveva bocciato con toni quasi beffardi lo sblocco del miliardo e trecento milioni. Il principio della decisione, caro agli elvetici, era quello di conservare il denaro sequestrato fino a una pronuncia definitiva. Appunto. (manuela d’alessandro)

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Schiaffo e sbeffeggi dalla Svizzera a Renzi, no al rientro del miliardo per Ilva

La ‘Salva Ilva’ voluta dal governo Renzi per dare ossigeno al gigante siderurgico prostrato dalle inchieste giudiziarie si schianta contro la Svizzera. Il Tribunale Federale di Bellinzona boccia lo sblocco verso l’Italia di 1,2 miliardi di euro che erano stati sequestrati alla famiglia Riva come frutto di presunti reati in una delle tante indagini sulla gestione dell’azienda.

Nella sentenza con cui negano il rimpatrio, i magistrati di Bellinzona massacrano con toni quasi sbeffeggianti il nostro sistema giudiziario e la norma che avrebbe dovuto risollevare la fabbrica un tempo orgoglio italiano. Sotto accusa c’è il sofisticato meccanismo previsto dalla ‘Salva Ilva’ per permettere alla società di utiilizzare i fondi sequestrati ai Riva attraverso la sotttoscrizione di obbligazioni da parte dell’azienda dell’acciaio. “La consegna del denaro – scrivono le toghe elvetiche – a causa della costellazione giuridica in Italia avrebbe come risultato che i valori in questione sarebbero stati subito convertiti, senza che vi sia una sentenza di confisca passata in giudicato ed esecutiva, in obbligazioni di una società in fallimento soggetta ad amministrazione straordinaria”. Questo significherebbe che “i beni patrimoniali sarebbero convertiti in titoli con valore non equivalente (presumibilmente senza valore o con valore fortemente ridotto) e ciò costituirebbe un’espropriazione senza un giudizio penale“.  Il principio, tanto caro agli svizzeri, è quello di conservare il denaro sequestrato fino a una pronuncia definitiva non facendogli perdere valore.

Cosa succederà ora? Il miliardo e passa resta ibernato presso la banca luganese Ubs e non torna alle figlie dell’ex patron, morto nel 2014, Emilio Riva, che avevano presentato ricorso contro la decisione della Procura di Zurigo, cancellata dal Tribunale Federale, di dare il ‘via libera’ allo sblocco dei soldi. Le eredi di Emilio sono state ritenute “non legittimate” a presentare l’istanza. Entro 10 giorni i magistrati di Zurigo potranno ricorrere contro i colleghi federali ma è molto probabile che anche la Procura di Milano non resti impassibile a guardare la montagna di denaro risucchiata oltreconfine. (manuela d’alessandro)

Il comunicato del Tribunale Federale di Bellinzona

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Taranto aspetta la rinascita ma le figlie di Riva bloccano il miliardo salva Ilva in Svizzera

Con un ricorso al Tribunale Federale di Bellinzona, le figlie di Emilio Riva bloccano il rientro dalla Svizzera all’Italia del miliardo e 200 milioni, presunto frutto di reati, che dovrebbe alleggerire le pene della fabbrica tarantina in base al decreto ‘salva – Ilva’. (reuters – da gip ok a sblocco)

Fanno i loro interessi, certo, convinte che quel denaro, sequestrato nell’ambito di un’indagine della Procura di Milano in cui si ipotizzano le accuse di truffa ai danni dello stato e trasferimento fittizio dei beni, sia cosa loro. E sfruttano i varchi giuridici nell’ordinamento della Svizzera, paese che, pur con qualche resistenza, il 19 giugno ha comunque detto sì alla magistratura italiana che chiedeva di ‘scongelare’ i soldi dai conti Ubs e metterli a disposizione del Commissario starordinario Piero Gnudi. Eppure resta una certa amarezza nel constatare l’accanimento con cui le eredi di Emilio, l’ex ‘re’ dell’Ilva morto più di un anno fa ma prima annientato dalle inchieste giudiziarie, non vogliano aiutare il disgraziato stabilimento che fu di famiglia. Le due donne hanno rinunciato all’eredità del padre in Italia e non è difficile pensare che l’abbiano deciso per non andare incontro alle pretese risarcitorie dei creditori e dei danneggiati dalla crisi dell’azienda.  Ora si danno da fare per evitare la migrazione di soldi che ritengono loro mentre Taranto aspetta come l’oro quel denaro. Nei prossimi giorni il Tribunale di Bellinzona, che per adesso si è limitato a sospendere il rimpatrio del miliardo e 200 milioni, deciderà nel merito sul suo destino. (manuela d’alessandro)