giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La battaglia del giudice contro i microfoni ‘silenziosi’

Chi parla di una violenza sessuale subita non ha certo voglia di farlo a voce alta. E se i microfoni non funzionano bisogna ripetere più volte le stesse cose e i processi diventano lenti, così impacciati da violare la recente direttiva del Csm che impone una ‘corsia’ più veloce per i procedimenti in cui si contestano reati di genere.

Per questo il giudice Mariolina Panasiti, che presiede la nona sezione penale davanti alla quale si celebrano questo tipo di processi,  sta combattendo da qualche tempo una battaglia contro i microfoni ‘silenziosi’. Nelle aule 9, 9 bis e N del Tribunale di Milano, come è facile appurare per chiunque ci metta piede,  i microfoni non amplificano e non registrano le voci delle parti in causa. Il risultato è che i dibattimenti proseguono da diversi mesi con grandi difficoltà perché chi parla è costretto a dover ripetere molte volte le proprie dichiarazioni. Panasiti ha per due volte, nel giro di poche settimane, messo a verbale i problemi che derivano da questa situazione e, durante un’udienza che si è svolta ieri, anche gli avvocati delle parti e il pm Rosaria Stagnaro si sono associati alla sua richiesta di adottare delle soluzioni. Entrambi i verbali sono stati inviati al Presidente della Corte d’Appello, al Presidente del Tribunale e al Procuratore Generale, i quali al momento non hanno fatto pervenire alcuna risposta alle sollecitazioni.

Il giudice sostiene che “la carenza di microfoni e di impianti di amplificazione rallenta notevolmente l’attività giudiziaria” in contrasto con la direttiva del Csm e fa anche presente che “parte civile, difensore e pm dispongono, in banchi diversi, di un unico microfono che per il suo funzionamento, ancorché precario, ha necessità di essere sostenuto da basi di appoggio tra i codici o i supporti di plastica occasionalmente reperiti”. (manuela d’alessandro)

Condannato il prete che imbarazza l’arcivescovo di Milano Delpini

Sei anni e quattro mesi, una delle condanne più severe registrate in Italia per casi di questo genere, a don Mauro Galli, l’ex parroco di Rozzano accusato di avere abusato di un ragazzino all’epoca 15enne nel dicembre del 2011. Una storia che ha imbarazzato (con toni molto sommessi) fin dal suo insediamento il capo della Chiesa ambrosiana, l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini, sentito come testimone nel corso delle indagini. E che ora assume dimensioni eclatanti alla luce di questa condanna e delle dichiarazioni dopo la sentenza della mamma della presunta vittima. “Don Carlo Mantegazza (un altro prete in servizio a Rozzano, ndr) – aveva messo Delpini a verbale il 24 ottobre 2014 – mi aveva riferito di un ragazzo di nome *** che aveva trascorso una notte a casa di don Mauro Galli. Mi disse che il ragazzo aveva poi segnalato presunti abusi sessuali  compiuti da don Mauro durante la notte (…). Ho convocato don Mauro che mi disse che aveva solamente voluto ospitare un ragazzo con difficoltà di apprendimento scolastico. Ha ammesso di avere dormito con lui quella notte ma di non avere compiuto alcun atto di tipo sessuale. Ho deciso quindi di trasferire don Mauro ad altro incarico, disponendo il suo trasferimento nella parrocchia di Legnano”. Don Galli venne destinato alla pastorale giovanile, nonostante la grave accusa.  Delpini, all’epoca vicario episcopale, non è mai stato indagato. Ma la mamma del ragazzo, subito dopo il verdetto, ha deciso di esporsi con forza e, alla nostra domanda sul’atteggiamento del capo della Chiesa milanese, ha risposto: “Abbiamo avuto con lui un unico incontro nel 2012 che non ci ha per niente soddisfatti. Il suo comportamento è stato maldestro perché dopo avere saputo dell’abuso lo ha messo di nuovo a contatto coi giovani”. Perplessità che sono state espresse in aula anche da don Mantegazza e da un altro prete di Rozzano: “Noi pensavamo – hanno detto ai giudici – che andasse spostato a livello prudenziale non in un contesto di pastorale giovanile”. Don Galli ai giudici della quinta sezione penale (presidente Ambrogio Moccia) ha ammesso di avere dormito col ragazzo a casa sua col consenso dei genitori, negando ogni abuso: “C’erano altri tre letti a disposizione, dormimmo nel mio (…) Notai che era in bilico sul letto con la testa vicino allo spigolo del comodino. D’istinto lo presi per una gamba e lo trascinai sul letto per evitare che sbattesse la testa”. Questo l’unico contatto tra i due, secondo la sua versione, ben diversa da quella del ragazzo che al pm Lucia Minutella ha raccontato degli abusi e di ricordare come un’ossessione “il ghigno” del sacerdote quando lo accompagnò il giorno dopo in auto a una gita con la parrocchia. L’imputato ha risarcito con 100mila euro il giovane e la famiglia che hanno revocato la costituzione di parte civile. “Non abbiamo mai più sentito Delpini da quell’incontro – ricorda la mamma – anche il Papa è a conoscenza dei fatti ma lo ha nominato come membro del Sinodo dei giovani”. (manuela d’alessandro)

Reati ‘domestici’ contro le donne, a Milano il 40% viene assolto

Italiano, 42 anni, disoccupato e alcolista. E’ questo il profilo dell’imputato per reati di violenza di genere (maltrattamenti contro familiari o conviventi, stalking, violenza sessuale) nei Tribunali di Milano (sezioni nona e quinta), Como e Pavia. Ma nel 40% dei procedimenti viene  assolto/prosciolto. “Una percentuale molto elevata”, commenta il giudice Fabio Roia tra gli autori dello studio, assieme all’avvocato Silvia Belloni, promosso dalla Regione Lombardia, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dal Tribunale meneghino che ha preso in considerazione 120 procedimenti tra l’1 gennaio e il 31 luglio 2017. La relazione tra imputati e parti offese è di conviventi (61%), separati/divorziati (27%) e partner (12%).

Netto il ‘primato’ degli italiani con il 59%. Dall’Europa orientale proviene il 12% degli imputati, il 10% dal Nord Africa, l’8% dall’Asia e dall’America Latina. Il dato sulla condizione lavorativa vede la prevalenza di disoccupati (31%) e operai (25%). Seguono impiegati (11%), artigiani/commercianti (5%), dirigenti/professionisti (3%). Tra le caratteristiche dell’imputato tracciate da questa indagine figura quella della dipendenza da alcol e droghe (40%).
La maggior parte dei presunti autori dei reati ha precedenti penali, il 14% sulla stessa vittima (nel 61% è la convivente), il 28% per reati contro la persona. Altissima la soglia di ‘sopportazione’ della donna: i maltrattamenti durano più di 5 anni nel 31% dei casi.  Basso il ricorso ai centri anti – violenza, solo nel 25% dei casi. Le parti offese preferiscono rivolgersi alle forze dell’ordine (60%) e agli ospedali (58%) e poi in maggioranza non si costituiscono parti civili (solo il 42% lo fa).

Sorprende il dato dei proscioglimenti e delle assoluzioni che sfiora il 40%. Colpevole è il 63% degli imputati per violenza sessuale, il 61,5% per stalking e il 62% per maltrattamenti. Per i maltrattamenti le assoluzioni sono motivate da mancanza del dolo (14%) mancanza di abitualità (22%), mancanza di riscontri esterni (11%), assenza di credibilità della parte offesa (10%), ritrattazione (7%). La media delle pene è di 1 anno e tre mesi per lo stalking, 6 anni e otto mesi per la violenza sessuale, 2 anni e sei mesi per i maltrattamenti. (manuela d’alessandro)

 

 

La sentenza sull’abuso sessuale con lei in pantaloni bocciata al seminario degli avvocati

Lei non è “credibile” perché ha denunciato solo 5 mesi dopo i fatti, racconta di avere subito un abuso sessuale con indosso i pantaloni, avrebbe finto di dormire quando si è accorta che lui la toccava nelle parti intime. Lui, un conoscente che l’aveva accompagnata a casa perché non si reggeva in piedi per l’alcol e poi si era infilato nel suo lettone matrimoniale “crollato per la stanchezza”, viene assolto dai giudici della nona sezione penale del Tribunale di Milano dall’accusa di violenza sessuale. Il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a un anno e dieci mesi di carcere. La sentenza (giudici Luerti – Gasparini – Introini) è stata oggetto di accese critiche da parte degli avvocati che hanno partecipato nei giorni scorsi a un seminario organizzato dall’ordine e dalla regione Lombardia per formare legali specializzati nella tutela delle vittime di violenza sessuale. Per il difensore di parte civile, che ha affiancato la donna nel processo e tiene l’anonimato per proteggere la cliente, “è un verdetto strano e incomprensibile. Avrei potuto capire un’assoluzione perché lui poteva avere frainteso le intenzioni di lei, disponibile a uscire e ubriacarsi con lui. Invece, i giudici puntano sulla non credibilità di lei con argomenti non logici”. La donna spiega ai giudici di essersi addormentata vestita ed essersi svegliata qualche ora dopo sentendo che lui “aveva un braccio sotto il mio collo e con quella mano mi toccava il seno e con l’altra dentro le mutande”. “Per quanto concerne l’abbigliamento – scrivono i giudici nelle motivazioni – non è stato spiegato come la mano dell’imputato possa essersi infilata sotto le mutande di una donna sdraiata a letto e vestita con abiti invernali, per di più pantaloni”.  “Coi pantaloni – insistono – la dinamica appare ancora meno verosimile: se il braccio dell’aggressore avvolge da sotto il collo della donan fino a toccare con la mano il seno, l’altro braccio non può che raggiungere la zona genitale che da sotto, salvo ipotizzare una difficile contorsione. La mano potrebbe così infilarsi sotto le mutande, se la donna non indossasse nulla oppure solo una gonna (…)”. Non è credibile nemmeno che abbia mantenuto un “comportamento glaciale e inspiegabilmente razionale” decidendo di non muoversi e “fingere un lento risveglio” mentre lui la palpeggiava.

Nella sentenza viene poi valorizzato il fatto che la donna abbia confessato a un’amica e taciuto invece ai giudici di non avere denunciato due abusi in passato. “Ma dal percorso psicologico seguito per un anno dalla mia cliente – contesta la parte civile – non è emerso alcun suo desiderio di rivalsa né la tendenza a confondere piani di realtà e fantasia, come confermato dalla terapeuta sentita in aula”. La donna, spiega il legale, ha deciso di non presentare appello “perché troppo traumatizzata dalla vicenda”. (manuela d’alessandro)