giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Quando chiudiamo gli occhi ‘la mafia siamo noi’

Dov’è la mafia? La mafia è qui, basta allungare una mano e palparne la consistenza oscena nella pagine del libro del cronista giudiziario milanese di ‘Repubblica’ Sandro De Riccardis. Se volete toccare la potenziale Cosa Vostra, annusarla e valutare se ce l’avete addosso anche voi o chi vi sta accanto o i vostri eroi, questo è il libro giusto.

- Sandro, perché la mafia siamo noi?

- La mafia non è un corpo a sé stante, separato dalla società, non c’è il nero o il bianco di due mondi distinti. Qui parliamo soprattutto del comportamento di quella che si considera la parte sana e che invece non lo è per indifferenza o per connivenza.

- Ha qualcosa a che fare anche coi ‘professionisti dell’antimafia’ di Sciascia?

- Diciamo che quello che teorizzava Sciascia nel 1987 ha valore oggi, ma non all’epoca in cui lo scrisse. In quel momento lui colpì le persone sbagliate, come Falcone. Oggi invece esiste davvero un’antimafia fatta di parole vuote a cui non corrisponde un concreto impegno sul territorio e per la legalità.

- Addirittura, tu scrivi, c’è un’antimafia che piace alla mafia…

-Si, e gli esempi che faccio sono tanti a cominciare da Bernardo Provenzano che da’ il via libera dalla latitanza all’ex presidente del consiglio comunale di Villabate per costituire un’associazione antimafia che poi organizzò una bella manifestazione contro Cosa Nostra con tanto di premio all’attore Raul Bova, interprete della fiction ‘Ultimo’.

- E poi ci sono i tanti, presunti paladini dell’antimafia.

-Una per tutti,  Rosy Canale,  icona molto attiva dell’antimafia calabrese che girava l’Italia con uno spettacolo teatrale in cui raccontava la sua storia di imprenditrice minacciata dai clan e costretta a chiudere il suo locale. Fonda il ‘Movimento delle donne di San Luca’ e promuove il progetto di una ludoteca nella terra delle faide. Ma una mattina l’arrestano per truffa e peculato perché, risulta dalle intercettazioni, usa i finanziamenti ottenuti con quella che lei stessa definisce “la favolata della legalità” per spese personali: mobili, auto, settimana bianca.

- Come facciamo nella vita quotidiana ad accorgerci se la mafia è anche Cosa Nostra?

- A Milano la mafia si declina soprattutto nel riciclaggio. Possiamo farci della domande su locali nati dal nulla e che sono quasi sempre vuoti.  Spesso alle spalle non hanno degli imprenditori ma dei prestanome che li utilizzano per ‘lavare’ i capitali sporchi.  Leggiamo i giornali, procuriamoci carte giudiziarie o documenti della Prefettura quando c’è un’inchiesta che riguarda il nostro territorio. Non è sempre facile, certo. Pensiamo al circolo ‘Falcone – Borsellino’ di Paderno Dugnano dove si svolgevano le riunioni dei boss in Lombardia. Era gestito dall’Arci, che non si accorse di nulla. Una storia esemplare che racconto è poi quella dei liceali di ‘Cortocircuito’ che, grazie a una semplice visura camerale, si sono accorti di organizzare la festa di fine anno scolastico in un locale legato alla criminalità. E poi si deve fare rete con chi denuncia. In Lombardia un solo imprenditore ha avuto il coraggio di farlo. Un uomo solo, come lo fu all’inizio Libero Grassi a Palermo.

- La parte più intensa del tuo libro è quella dove parli della giustizia riparativa. Perché hai inserito questo capitolo tra tante storie di denuncia?

- Molte vittime hanno l’esigenza di non restare chiuse nel dolore e di dare un senso alla perdita del loro caro. E incontrano chi ha fatto i conti col proprio passato e ha deciso di mettersi accanto a chi vuole sconfiggere i clan. Non stiamo parlando dei pentiti e del pentitismo che è un fenomeno utilitaristico. Ci sono tante storie di chi ha già scontato la pena  e ha voglia di cambiare vita. Penso a Marisa Fiorani che perde la figlia uccisa a colpi di pietra dopo che era finita nella Sacra corona unita. Il suo racconto nel carcere di Opera porta alcuni detenuti ad aprirsi e a parlare di sé. O ai genitori di Michele Fazio che incontrano un ragazzo parte del commando che ha ucciso il figlio dopo che ha finito di scontare la pena. (manuela d’alessandro)

‘La mafia siamo noi’ di Sandro De Riccardis. Add editore, 238 pagg., 15 euro. Presentazione a Milano il 4 marzo alle ore 18 alla libreria ‘Centofiori’.

 

 

Reato di tortura, se non ora, quando?

Lunedì sera, Teatro Pavoni, periferia di Milano.

Le storie di Rosario Indelicato e di Giuseppe Gulotta fanno venire i brividi agli spettatori presenti. Un pubblico di addetti ai lavori e non assiste alla serata orgamizzata dalla Camera Penale di Milano per sensibilizzare sul tema della necessità di introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura.

Gli interventi di Giuliano Pisapia e Monica Gambirasio aprono la prima parte. Si evidenzia la necessità che finalmente il nostro ordinamento si adegui alle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, dopo diversi tentativi andati a vuoto. Vengono sottolineati i nodi del disegno di legge che è in discussione in Parlamento. E poi ci sono le storie.

L’avvocato Baldassarre Lauria racconta quella della lunghissima carcerazione patita dal suo assistito Giuseppe Gulotta che aveva confessato sotto tortura e sottolinea le storture della legislazione emergenziale antimafia, del 41 bis e dei reati ostativi che non consentono che il principio della rieducazione della pena li esplichi.

Cetta Brancato, curatrice del libro che racconta la terribile detenzione a Pianosa di Rosario Indelicato, evidenzia un aspetto che accomuna le due storie: la difficoltà a raccontare eventi terribili, talmente terribili da non poter trovare credito. Rosario Indelicato e Giuseppe Gulotta non sono stati creduti e finalmente trovano ascolto.

Vengono letti passaggi del libro ‘L’infermo di Pianosa’, storia degli abusi della carcerazione dura dopo le stragi del 1992; non è solo una storia di detenzione di 41 bis, ma soprattutto è il racconto di una violenza senza confine con lo scopo di indurre alla collaborazione detenuti neppure giudicati in primo grado. Un “libro da divorare, con un sospiro di angoscia per ogni pagine”, commenta Pisapia.

Infine, va in scena “Come un granello di sabbia”, lo splendido monologo teatrale sulla storia di Giuseppe Gulotta, nel quale torna il tema dell’incredulità di tutti, anche dei magistrati, di fronte al grido disperato di una persona ingiustamente condannata. Il crudo racconto delle violenza subite dalle forze dell’ordine e della confessione storta è un pugno nello stomaco. Per citare il ministro Andrea Orlando: “Sul reato di tortura non c’è tempo da perdere”.

Avvocato Valentina Alberta

Il giudice di Milano manda all’aria l’accordo Renzi – Procura per il miliardo ‘salva Ilva’

 

Matteo Renzi e Francesco Greco non avevano considerato quel giudice che ha fama di ‘dura’ e che a sorpresa, quando era molto giovane, si era già guadagnata lo stupore generale prosciogliendo Silvio Berlusconi per il caso Mediatrade.

A novembre l’allora premier, in piena ansia referendaria, e il procuratore capo di Milano, cui non mancano doti di fine mediatore, avevano annunciato l’accordo con la famiglia Riva per il rientro del miliardo e trecento milioni bloccato da anni in Svizzera e frutto di evasione fiscale. Soldi da destinare al risanamento dell’azienda siderurgica tarantina.

In cambio, questo non si era detto in modo esplicito ma era chiaro, le procure di Milano e Taranto si impegnavano ad ‘ammorbidire’ la posizione giudiziaria degli eredi di Emilio Riva.  Detto fatto, la Procura milanese concordava coi legali di Adriano, Fabio e Nicola Riva pene comprese tra i 2 anni e mezzo e i 5 anni per reati, a vario titolo, di bancarotta, truffa ai danni dello Stato, intestamento fittizio di valori.

Troppo basse  “a fronte della gravità dei fatti” per il giudice Maria Vicidomini. Nella sua ordinanza ritiene non congruo anche il miliardo e trecento milioni messo sul piatto dai Riva che, oltre tutto, fa gola anche alla magistratura pugliese per altri processi.

E il magistrato sembra far proprie anche le proteste delle parti civili nei vari procedimenti aperti che scenderanno in piazza a Taranto contro i patteggiamenti tra qualche giorno quando scrive che l’intesa benedetta da governo e procure rappresenta “un accordo omnicomprensivo che, raggruppando in maniera generica una molteplicità di reciproche rinunce ad azioni esercitabili in sede civile, amministrativa e penale, rischia di tradursi in una sotanziale e totalizzante abdicazione, non solo da parte degli imputati ma anche del commissario straordinario di Ilva spa e del curatore speciale di Riva Fire alla tutela di molteplici e variegati interessi che richiederebbero altre forme di salvaguardia”.

“Ora si rischia la paralisi, per Taranto non è un bel giorno”, commenta un avvocato vicino alla società. Tutto può ancora accadere ma non si poteva aspettare la ratifica del patteggiamento prima di illudere una città e dei lavoratori già così provati? Eppure c’era un precedente. Nel novenbre del 2015, la ‘salva Ilva’ di Renzi si era schiantata contro il Tribunale federale di Bellinzona che aveva bocciato con toni quasi beffardi lo sblocco del miliardo e trecento milioni. Il principio della decisione, caro agli elvetici, era quello di conservare il denaro sequestrato fino a una pronuncia definitiva. Appunto. (manuela d’alessandro)

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Mani pulite, 25 anni fa la grande farsa. E non è finita…

 

“Intervista Borrelli”. “Intervista D’Ambrosio”. Dai capi dei giornaloni era un continuo di richieste ai loro uomini (e donne) sul campo. “Intervista su che?”. “Su quello che vogliono loro”. E andò a finire a un certo punto che a Borrelli e D’Ambrosio furono sollecitati pareri persino sull’America’s Cup di vela.

C’era un paese ai piedi di quattro signori del quarto piano che avevano vinto un concorso. Correva l’anno 1992. La corruzione c’era pure prima del mitico ’92, solo che le procure, Milano in testa, avevano fatto finta di non vederla. Poi “all’improvviso” le toghe si svegliarono. Perché la politica era diventata debole e perché la magistratura aveva da incassare il credito acquisito un po’ di lustri prima quando le era era stato delegato il compito di risolvere la questione della sovversione interna (“anni di piombo” ,”terrorismo” definizioni anche tecnicamente sbagliate ma lasciamo perdere).

Le toghe saltarono al collo dei politici gridando: “Adesso comandiamo noi”. E così fu. Mani pulite, un regolamento di conti all’interno della classe dirigente di un paese, con la scusa della “lotta alla corruzione”. L’azione penale fu essercitata fino in fondo a macchia di leopardo secondo convenienze e opportunità della magistratura. La fecero franca i grandi imprenditori che erano editori dei giornali i quali appoggiarono l’inchiesta sapendo di avere scheletri negli armadi. Un do ut des in piena regola. Su Fiat si fece finta di indagare, su Mediobanca neanche quello. L’editore di Repubblica se la cavò con un buffetto. Tutto a scapito dei politici che pagarono a eccezione di un partito, quello che poi manderà in Senato via Mugello l’uomo simbolo di Mani Pulite, molto attivo nel vivere a scrocco degli inquisiti del suo ufficio, insomma un esempio di alta moralità.

E non fu una questione di toghe rosse. L’operazione aveva bisogno di una sponda politica per evitare in caso di indagini vere su tutti il varo di un’amnistia da parte del Parlamento.

Due pesi due misure, l’utilizzo della custodia cautelare per ottenere confessioni, ammissioni, “per avere l’osso”. Folle vocianti e acclamanti in corso di porta Vittoria, bandiere e simboli di tutti i partiti dall’Msi al Leoncavallo. “Di Pietro non mollare”. “Borrelli facci sognare”. Le telecamera in prima fila erano quelle di Berlusconi che in realtà non aveva capito nulla, visto che sarà poi l’unico grande imprenditore ad essere inquisito fino in fondo dal momento della discesa in campo.

Tonino da Montenero iniziò anche a delirare: “Mani pulite nel mondo”.  Poi clamorosamente lasciò. “Mi tiravano per la giacchetta” fu una delle 752 versioni dei fatti che diede. Ma contro non c’erano “veleni”, come ancora oggi sostengono gli orfani della grande farsa, ma fatti veri, dai prestiti a babbo morto alle auto ai cellulari con bolletta pagata. A livello penale si salvò a Brescia, complice un comunicato con cui l’Anm per la prima volta nella sua storia si schierò con l’indagato. Ovviamente fu anche l’ultima.

Mani pulite servì alla magistratura per aumentare il suo potere nei confronti di una classe politica che arrivò perfino a suicidarsi abolendo l’autorizzazione a procedere e a un singolo magistrato per arricchirsi fino all’Italia dei valori immobiliari

E’ cambiato qualcosa? Poco. La corruzione c’è sempre. Allora i magistrati acquisivano potere soprattutto facendo le indagini o facendo finta di farle, adesso anche non facendole. La moratoria Expo è in stile Mani pulite. Expo insomma è la Fiat del terzo millennio. Berlusconi si scontrava con le toghe e lo fa ancora oggi perchè non lo lasciano in pace nemmeno in camera da letto. Renzi ringrazia la procura di Milano “per il senso di responsabilità istituzionale” che ha permesso a Peppino Sala di diventare sindaco di Milano direttamente dalla gestione di Expo. Non tutti i conflitti di interessi sono uguali perché alcuni sono a fin di bene, come del resto certi reati. (frank cimini)

Né magistrati, né avvocati, le ‘nozze d’argento’ di Mani Pulite si celebrano in un’aula vuota

Il dato nitido è che l’aula magna è vuota come neppure al più tremendo dei corsi di formazione professionale (c’è da dire che qui crediti non ne sono previsti). L’unico magistrato in aula, spettatore di se stesso, è uno dei relatori, Pier Camillo Davigo, attorno al quale cresce e poi si smorza una polemica su una presunta diserzione dell’Ordine degli Avvocati milanesi motivata dalla sua presenza di “ospite sgradito”. Così almeno ce la racconta Francesca Scoleri, presidente di Themis & Metis, che ha organizzato l’incontro. Il tempo per le agenzie di battere la notizia che arriva la precisazione del presidente dell’Ordine, Remo Danovi: “Ci mancherebbe, nessun disagio a discutere col presidente di Anm, come già accaduto in passato”. Scoleri però insiste in apertura dell’incontro: “La miglior risposta a chi ha voluto impedire questo incontro è averlo realizzato”.

Perché allora non c’è nessuno (poco più di una decina di ‘veri’ spettatori, il resto sono giornalisti)?

Antonio Di Pietro spiega in piedi e con foga gladiatoria dei tempi antichi la “grande amarezza di quest’aula vuota”con “l’unica cosa che resta di Tangentopoli: la desolazione dell’opinione pubblica che non ci crede più”.

Va bene, fose non è stata data pubblicità all’evento ma la sensibilità degli avvocati non può che essere lontanissima dai proclami manettari del presidente dell’Anm. Pensiero che non sfiora nemmeno gli oratori impegnati nell’autocelebrazione di una stagione molto opaca sul fronte dei diritti delle difese. (manuela d’alessandro)