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Nella riforma voluta da Nordio che ha introdotto l’interrogatorio preventivo c’è un buco. Non viene indicato un termine entro cui il giudice deve decidere se appallottolare la richiesta di misura cautelare firmata dalla Procura o accoglierla del tutto o in parte.
Per i ‘candidati’ all’arresto coinvolti in inchieste che interessino l’opinione pubblica viene in sostanza acceso un fuoco mediatico sul quale stanno ad arrostire per giorni (o anche mesi), come sta accadendo per l’ex assessore comunale Giancarlo Tancredi, l’imprenditore Manfredi Catella e gli altri quattro sui quali dovrà pronunciarsi il giudice nell’ambito dell’inchiesta sul presunto sistema di corruzione che avrebbe dominato l’urbanistica milanese. L’effetto viene amplificato perché, nel frattempo, circola in purezza sui media l’atto dell’accusa non mediato da un giudice, talora ridondante di quelle espressioni, diciamo, ‘vivaci’ che utilizzano i pubblici ministeri nell’afflato investigativo. Senza contare allegati e dettagli che il giudice prima ometteva di svelare nell’ordinanza e ora invece vengono messi a disposizioni delle parti e, quindi, che piaccia o meno, hanno buone possibilità di diventare pubblici.
Poi, certo, va riconosciuto che la novità legislativa permette a chi sta sta con mezzo patibolo sul collo di provare a sfilarsi indebolendo le esigenze cautelari dimettendosi o attraverso memorie e dichiarazioni nel faccia a faccia col gip.
Sappiamo bene però che, nell’eccitazione mediatica, fa molto più rumore un pm che accusa che cento avvocati che difendono i loro assistiti. E, anche se poi la misura cautelare dovesse essere respinta dal giudice, sulla graticola resterebbero pochi, bruciacchiati brandelli di reputazione. Per questo mettere un tempo massimo a questa attesa costituirebbe un atto di civiltà.
(manuela d’alessandro)