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giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Concorso in omicidio per lo Stato che non trovò posto nella Rems a Livrieri

Concorso in omicidio. Lo Stato dovrebbe farsi carico di una parte dei  25 anni che dovrà scontare Domenico Livrieri per avere ucciso la sua vicina di casa Marta Di Nardo.

Ci si può girare attorno dicendo ‘sì, ma poi, chissà come sarebbe andata, forse non l’avrebbe uccisa’, ma è certo che il dovere dello Stato era  quello trovargli posto  in una Rems dove, secondo un giudice che lo aveva ritenuto seminfermo prima del delitto, avrebbe dovuto essere curato e sorvegliato perché ritenuto socialmente pericoloso.

Invece nell’ottobre del 2023, libero e sofferente, quest’uomo che ha assistito con  sguardo buio alla condanna nell’aula della Corte d’Assise di Milano, ha ucciso per poi farne a  pezzi il corpo di Marta Di Nardo, nascondendo quel che restava della povera donna di 60 anni in una botola sopra la porta della sua cucina in un palazzo popolare in via Pietro Da Cortona.  A coronare tutto di “assurdo”, questo è l’aggettivo speso dal legale dell’imputato, Diego Soddu, per qualificare la vicenda, ci sono due altri fatti.

Uno: la perizia psichiatrica disposta dai giudici durante il processo ha effettivamente certificato come seminfermo di mente l’imputato, condizione che gli ha consentito di ottenere un’attenuante.Due, ed è qui che il cortocircuito appare in tutta la sua enormità, i giudici hanno disposto il ricovero in una Rems per 5 anni a pena espiata. Un amarissimo ritorno al punto di partenza.

Domenico Livrieri e Marta Di Nardo si erano incontrati sul pianerottolo dove condividevano i loro tormenti. Se lo Stato e la Regione, da cui dipendono le Rems che sono di competenza della sanità, avessero fatto quello che gli spettava, probabilmente le due anime perse non si sarebbero trovate in quelle scale per perdersi ancora di più.

“Il ricovero nella Rems era rimasto ineseguito per mancanza di disponibilità nonostante i ripetuti solleciti dei pm alle autorità di competenza” dopo che un giudice lo aveva disposto. Questa è l’altra sentenza di condanna per l’omicidio di Marta Di Nardo.

(manuela d’alessandro)

Le manette che non servono ogni giorno, basta fare finta di non vedere

 

Quasi tutti i giorni al terzo piano del palazzo di giustizia,  scelto come punto di osservazione perché c’è la sala stampa, si vedono incedere a passo lento nel corridoio persone trascinate in manette con un sottile cavo di acciaio dagli agenti penitenziari. Sono in apparenza tranquille, non esprimono quasi mai manifestazioni di rabbia e che, insomma, non parrebbero rientrare nei casi descritti nella legge 492 del 1992 introdotta nel 1992 approvata in piena tangentopoli per il ribrezzo provocato dalle immagini del politico Ezio Carra portato in giro per il tribunale con gli schiavettoni ai polsi.

La norma introdusse il principio generale che “salvo in particolari circostanze come la pericolosità del soggetto e il pericolo di fuga, non è ammesso l’uso della manette nella traduzione del recluso. In tutti gli altri casi l’uso delle manette ai polsi o di qualsiasi altro mezzo di coercizione fisica è vietato”.

E’ veramente difficile, proprio a una neutra osservazione dello stato delle cose (la foto pubblicata è di pochi giorni fa), immaginare che ogni santo giorno calpesti i marmi un detenuto così irrequieto e pericoloso (i processi a imputati di elevato profilo criminale non sono certo quotidiani) da costringere alla violazione di un principio generale.

Il regolamento penitenziario peraltro prevede che “nella traduzioni sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni pubblicità”.

Invece ogni giorno c’è la possibilità di guardare negli occhi, a volte no perché sono fissi a terra, persone in attesa di entrare in un’aula di giustizia legate a un cavo e con le manette che per fortuna, a differenza di  quanto avvenne con Ilaria Salis in Ungheria, gli vengono tolte durante i processi.

Il tema non è quello degli agenti che si limitano a eseguire degli ordini o forse solo a seguire delle prassi (la pericolosità andrebbe valutata dal direttore del carcere o dalla magistratura).

Vorremo invece aprire una riflessione se sia possibile evitare che persone vengano ammanettate senza una necessità reale e contro una legge di civiltà che fa propri i diritti di libertà e di dignità.

Quelli per cui vale la pena non far finta di non vedere. (manuela d’alessandro)

Per la Cassazione la morte in cella per overdose è colpa (anche) dello Stato

I giudici civili hanno sancito la corresponsabilità dell’apparato penitenziario, condannando il ministero della Giustizia a risarcire madre e vedova di un ragazzo tossicodipendente deceduto a Regina Coeli.

Ventidue anni per avere giustizia

Lo Stato ha il dovere di garantire la tutela della vita delle persone che tiene chiuse in carcere, anche di quelle che in cella riescono a procurarsi sostanze stupefacenti e si espongono a rischi. E se non lo fa, e la droga arriva in cella e uccide, deve risarcire chi perde un figlio o un marito. Sembra un principio sacrosanto, scontato, declinato concretamente in automatico. Ma la Cassazione lo ha dovuto ribadire, chiudendo un caso dopo più di 22 anni, per dare giustizia e ristoro economico ad una madre e una vedova.

Il concorso di colpa e i risarcimenti

I giudici della Terza sezione civile, con l’ordinanza 29.826 depositata a fine 2024 e pubblicizzata di recente, hanno reso definiva la condanna del ministero della Giustizia, tenuto a pagare quasi 223 mila euro alla mamma e circa 212mila alla moglie di un giovane detenuto stroncato da un’overdose di cocaina durante la carcerazione a Regina Coeli. Gli “ermellini” hanno dato ragione ai colleghi della Corte d’appello civile di Roma, dopo una girandola di ricorsi e ribaltamenti di decisioni precedenti, inizialmente sfavorevoli alle due donne. Alla struttura carceraria è stata addebitata metà della colpa.  Il comportamento rischioso del ragazzo non basta ad escludere del tutto le responsabilità dell’apparato penitenziario, che per legge ha il compito e il dovere di controllo e di vigilanza.

Lo Stato ha cercato di chiamarsi fuori

Lo Stato ha cercato in tutti i modi di chiamarsi fuori e opporsi, attraverso l’Avvocatura di Stato, provando a ribaltare sul ragazzo cocainomane l’intero peso di una fine tragica.  Ha perso e ora il pronunciamento della Cassazione, richiamate precedenti decisioni in materia, potrebbe spianare la strada a cause simili e ad altri pesanti indennizzi. In Italia, ogni anno, si contano decine di decessi in carcere per suicidi, a volte prevedibili e annunciati, per cause accidentali o non meglio specificate, per abuso di stupefacenti e mix di psicofarmaci, per inalazione di gas dei fornelletti da campeggio utilizzati per cucinare, per malattia o per omicidi (come documenta il dossier Morire di carcere di Ristretti orizzonti, in www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/)

Le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria

Quando un detenuto tossicodipendente muore in carcere per un’assunzione di stupefacenti – dice l’ordinanza, sintetizzata sul portale della stessa Cassazione e in siti per addetti ai lavori – c’è la responsabilità della struttura penitenziaria nella misura del 50 per cento. E questo concorso di responsabilità, nel caso trattato, è riconducibile a colpa omissiva e per due ordini di motivi. Non è stato controllato adeguatamente il ragazzo con problemi di droga, pur essendoci segnali da non sottovalutare, e non è stato impedito che la cocaina circolasse all’interno del carcere e arrivasse fino a lui.

Ecco le norme di legge violate

Le norme violate, dell’ordinamento penitenziario, sono richiamate nel provvedimento di piazza Cavour. L’articolo 1 della legge 354 del 1975 impone che siano rispettati i diritti fondamentali delle persone ristrette, in primis il diritto alla vita e all’integrità fisica. Il regolamento di esecuzione, il Dpr 230 del 2000, garantisce la sicurezza nei luoghi di detenzione, almeno sulla carta, e individua gli oggetti che i detenuti possono ricevere e possedere in carcere. Invece il personale non ha vigilato adeguatamente su ragazzo fragile con trascorsi di dipendenza e non ha messo in atto le misure necessarie per evitare che la cocaina venisse portata e girasse tra le celle.

L’arresto per un furto e la carcerazione

Il giovane detenuto era stato arrestato il 10 marzo 2002 per il furto di un telefonino e portato nella casa circondariale di Regina Coeli. Al momento dell’immatricolazione e della visita d’ingresso aveva dichiarato di essere tossicodipendente ed era stato preso in carico dal Sert interno. Lo avevano dimesso il 12 luglio 2002, e collocato in una cella comune, perché «risultava aver superato il problema» e aveva comunicato «la volontà di condurre una nuova vita».

Morte in cella per overdose di cocaina

Non è andata così. Il 18 luglio 2002 il ragazzo ha sniffato cocaina ed è morto in carcere a 24 anni. L’autopsia ha escluso ipotesi alternative e ha certificato che lo ha stroncato l’assunzione di droga, un’overdose. Mamma e moglie si sono affidate a una avvocata e hanno portato in giudizio il ministero di Giustizia, chiedendo di essere risarcite per il danno e per le sofferenze subite e innescando il procedimento civile concluso dopo anni e anni.

Sottovalutazione del rischio di ricadute

Il ragazzo ha assunto droga per libera scelta, riconoscono i giudici di Appello e di piazza Cavour. Ma la sua «situazione era tale da rendere altamente probabile una ricaduta nella tossicodipendenza qualora, una volta dimesso dal Sert, avesse avuto la disponibilità di sostanze stupefacenti». Il quadro era noto, Nel diario clinico compilato nel carcere romano «emergeva che era tossicodipendente dall’età di 19 anni e che, pur avendo manifestato di aver avviato un percorso di affrancamento, non poteva ipotizzarsi che si fosse definitivamente disintossicato», come provato anche dall’ammissione ad un programma di recupero in una comunità di Trapani, dove avrebbe dovuto essere ricoverato e curato.

Chiusa una indagine nel giorno della morte del ragazzo

Lo stesso giorno del decesso del ragazzo, di cui nelle agenzie si stampa e negli archivi dei giornali consultati non si trova traccia, si era avuta ampia notizia dell’esecuzione di 36 ordinanze di custodia cautelare, un punto fermo messo alle indagini sullo spaccio all’interno dei penitenziari della capitale. Alcuni pregiudicati detenuti a Regina Coeli e a Rebibbia, in una intercettazione paragonata a un villaggio vacanze con tanto di animatore, avevano organizzato l’approvvigionamento di droga con l’aiuto di familiari e di poliziotti penitenziari, finiti in quattro in manette. Cocaina ed eroina entravano negli istituti nascoste in oggetti e cibi, da tacchi di scarpe a forme di pecorino scavate per far posto alle dosi.

Lorenza Pleuteri, collaboratrice di Osservatoriodiritti.it

Se un processo penale ti salva dalla rovina

Per il giudice penale, il fatto non sussisteva. L’incendio di fine 2018 a Sorico, nel comasco, che aveva incenerito quasi 700 ettari di bosco del monte Berlinghera, impegnando canadair e pompieri per giorni, non fu colpa loro.

Il giudice civile, invece, si guarda bene da cercare di stabilire se siano responsabili o no del disastro. Ma incenerisce la multa che avrebbe rovinato la loro vita. Oltre otto milioni. Per l’esattezza: 8.125.739 euro e 80 centesimi. Così, forse di mancia. Se sono salvi, quei due ragazzi, lo devono al principio del ne bis in idem, che forse non conoscevano neppure. Non si processa due volte, in sede penale e amministrativa, lo stesso fatto. A meno che le due sanzioni non prevedano un meccanismo compensativo tra le stesse. Solo che nello specifico, tra la violazione del codice penale e quella di una legge regionale lombarda, la 31/2008 che punisce chi distrugge boschi con un incendio, non c’è collegamento sanzionatorio.

In sede penale, il pm aveva chiesto un anno e otto mesi di condanna per i due giovani, D.B e A.M, che avevano acceso il barbecue davanti alla baita dei nonni del primo. Tirava vento forte. Alcune tizzoni e faville avevano superato la recinzione e innescato fiamme nel prato. Gli investigatori avevano fatto i conti al millimetro: 684,0986 ettari distrutti. Secondo le difese (avv. Ivana Anomali e Giuseppe Fadda) l’area boschiva era però frequentata anche da altre persone estranee a quella comitiva di amici. E altri roghi indipendenti si erano sviluppati nella stessa zona. Sentenza a maggio 2024. Un 530 cpp che, attraverso la cortina di fumo e fiamme, aveva fatto intravedere la luce ai due imputati.

Solo in seguito, a fine ottobre, è arrivata la sentenza civile. Le motivazioni tacciono sul merito. La questione è un’altra. Per il giudice di Como Paolo Bertollini c’entrano la sentenza Grande Stevens vs Ue, la A&B vs Norvegia, la giurisprudenza sul principio del ne bis in idem, appunto. Chissà come sarebbe finita senza il processo penale.

Unica postilla. Una multa, quella sì, va pagata. Per aver acceso un barbecue in un luogo a meno di 100 metri dal bosco, cosa pacifica. Fanno 118,78 euro. Decisamente meglio che un mutuo per le prossime 15 generazioni. 

Il danno mediatico su Boeri (e in generale) dell’interrogatorio anticipato

La richiesta di arresti domiciliari per Stefano Boeri è la prima prova mediatica dell’interrogatorio anticipato di un indagato davanti a un giudice, prima, si intende, della decisione di adottare misure cautelari.

Nessun dubbio sul fatto che questa novità aumenti le possibilità di difesa per chi rischia di essere privato della libertà ma dal punto di vista dei risvolti sulla reputazione di un personaggio noto si può dire che sia un vantaggio?

Poco dopo la notifica  della richiesta per Boeri da parte della Procura, i media  sono venuti facilmente a conoscenza delle carte dell’accusa come spesso succede quando un atto finisce nelle mani di più persone, in questo caso di sette indagati.

A quel punto la notizia su Boeri, architetto che gode di solida e vasta fama, ha viaggiato rapidamente in giro per il mondo. E la parola affiancata al suo nome è stata quella che getta l’onta peggiore quando si viene coinvolti in un guaio giudiziario: “arresto”. E’ vero che poco dopo Boeri ha avuto la possibillità di diffondere la sua posizione sulla vicenda, con un primo abbozzo di difesa ‘mediatica’, ma sicuramente l’impatto della richiesta di arresto è stato ben più dirompente della sola notizia ‘Boeri è indagato’ per turbativa d’asta.

Non è per nulla scontato che la richiesta venga accolta dai giudici considerato anche che è passato diverso tempo dalle ultime attività d’indagine.

Di certo senza l’interrogatorio anticipato nessuno avrebbe saputo che pende su Boeri una spada così affilata. Forse dopo, a giochi fatti, qualcuno lo avrebbe appreso ma a ipotesi sfumata, con molto meno pathos di adesso.

Lo diciamo: l’immagine di un uomo sul ‘patibolo’ che pende  in attesa di conoscere il proprio destino non è mai piacevole e, col passare dei giorni la parola ‘arresto’ rimbomba sempre di più accanto al nome dell’inventore del grattacielo col verde in verticale. (manuela d’alessandro)