farmacia senza ricetta recensioni cialis originale 20 mg prezzo in farmacia italiana kamagra oral jelly 100mg quanto costa il cialis in farmacia

giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Perché oggi siamo contrari alla separazione delle carriere

Dicono che la riforma sulla separazione delle carriere garantirà la terzietà del giudice rispetto al pubblico il ministero, che è necessaria perché rappresenta, finalmente, l’attuazione del modello di processo accusatorio voluto dal legislatore del 1989.

Argomenti, cui, in passato, noi stessi abbiamo aderito.
Sono ancora attuali? Qual è la reale posta in gioco?  Innanzitutto una precisazione. La riforma non ha ad oggetto il problema della separazione delle funzioni (o giudice o pubblico ministero), ormai risolto dalla riforma Cartabia, ma la disarticolazione dell’organo di autogoverno della magistratura ordinaria e, soprattutto, la sottrazione ai magistrati del diritto di eleggerne i membri.
L’idea, più o meno espressa, è che la magistratura abbia dimostrato di non essere in grado di scegliersi i propri rappresentanti nell’organo di autogoverno senza finire per dividersi in correnti. Nelle correnti risiederebbe la radice di quello che è ritenuto uno dei principali mali del nostro tempo: la politicizzazione della magistratura. Indegni del metodo democratico, siano eletti a sorte.
Ora, che la magistratura subisca l’influenza della politica è cosa tanto ovvia, quanto inevitabile: politica e diritto nascono e muoiono insieme. Non solo la creazione, ma anche l’applicazione e l’interpretazione delle norme giuridiche sono frutto di scelte fatte in relazione alla vita di una comunità. Tutti i processi hanno una componente politica, più o meno rilevante: chi lo nega è ipocrita o ingenuo. Conseguentemente anche le decisioni sulla carriera dei magistrati sono, in una certa misura, atti politici.
Ma né il sorteggio, né la divisione del CSM interferiranno su questo. Quello che verrà intaccato sarà il peso della magistratura in queste decisioni, a vantaggio delle altre forze che interferiscono sulla componente politica della giustizia: potere esecutivo in testa.
E questo non solo per l’ovvia considerazione che la divisione di un corpo ne riduce il peso, ma anche perché, mentre i magistrati saranno realmente scelti a caso tra quasi 10.000 soggetti, non necessariamente interessati o capaci o adatti, i laici saranno estratti da un elenco ragionato di qualche decina di nomi scelti dal Parlamento, cioè ancora, tendenzialmente, dal Governo.
D’altro canto, dire che la separazione delle carriere serve a portare a compimento la riforma del processo in senso accusatorio significa ignorare che il modello accusatorio è stato da tempo rigettato dal sistema, sostituito da un ibrido con significative componenti inquisitorie, in cui quasi tutti i procedimenti si chiudono con modalità di definizione alternative al processo. Certo, ci sono le indagini preliminari, con la questione misure cautelari: si dice che con la separazione il gip dovrebbe essere più libero di dissentire dal pm. Possibile. Ma che indagini avremo? Sapranno (potranno) le procure resistere alle spinte o alle tentazioni della politica?
Intanto le libertà dei cittadini sono sempre più spesso insidiate da nuove, sempre più insidiose, misure di polizia (oggi se la prendono con migranti e maranza, ma domani…), rispetto alle quali le libertà dei cittadini sono infinitamente meno garantite che nel processo penale.
Soffiano venti oscuri e in tempi simili ad essere in pericolo sono innanzitutto le libertà. Con un esecutivo sempre più muscolare (del legislativo si sono da tempo perse le tracce), il potere giudiziario potrebbe essere chiamato, forse come mai in precedenza, ad incarnare la propria più autentica dimensione costituzionale, quella di garante delle libertà e dei diritti fondamentali.
Attenzione a non barattare l’indipendenza del potere giudiziario con la vittoria di una battaglia di principio. Nessuna democrazia è abbastanza consolidata da non poter essere messa in pericolo.

avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini

Calamucci parla al procuratore capo
Secretato l’interrogatorio dell’hacker Sam

E’ uno dei capi dei presunti ‘spioni’ di Equalize. L’interfaccia dell’ex superpoliziotto Carmine Gallo. Nunzio Samuele Calamucci, 45 anni, detto Sam, l’hacker, deve avere un sacco di cose da dire, e piuttosto importanti, se per interrogarlo, a pochi giorni dal Natale, dopo un primo incontro, questa volta ci si è messo in prima persona il procuratore capo di Milano Marcello Viola. Interrogatorio secretato, ça va sans dire. Spera naturalmente che la procura rinunci all’appello presentato al Riesame per ottenere il carcere (il gip ha concesso ‘solo’ i domiciliari). Qualcuno trema?

Cosa il cronista giudiziario può pubblicare ora, cosa non non può ma fa e cosa non potrà

 

Proviamo a fare chiarezza per chi non bazzica i tribunali: quali atti giudiziari potrebbero pubblicare ora i cronisti, quali effettivamente pubblicano e quali potranno pubblicare secondo la stretta voluta dal governo nel decreto?

Una certezza: dal 2017 possono inserire nei loro pezzi i virgolettati delle ordinanze di custodia cautelare e i provvedimenti di sequestro perché è previsto dalla legge voluta dall’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

Un’altra sicurezza, che in pochi ricordano sebbene sia materia dell’esame per diventare giornalisti professionisti, è che non si potrebbero pubblicare, nemmeno sotto forma di sintesi, gli altri atti che costituiscono la ‘trama’ di un’inchiesta e cioé i decreti di perquisizione, le richieste di misura cautelare, le informative, gli avvisi di garanzia, gli atti di chiusura delle indagini.

Chi lo dice? Il codice penale agli articoli 114 e  684. Il primo recita: “E’ vietata la pubblicazione degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Cioé fino a quando ci si avvia al processo.

Il secondo individua il reato legato al divieto, quello di ‘Pubblicazione arbitraria di atti’. “Chiunque pubblica – in tutto o in parte – anche per riassunto, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammendo da 51 euro a 258 euro”.

Eppure, nelle cronache quotidiane capita molto spesso di vedere trascritte parti, anche sostanziose, di questi atti.

Come mai? Perché si è sviluppata una ‘silenziosa’ tolleranza della violazione di questo articolo tenendo presente che spesso sono documenti già noti alle parti e perché l’entità delle multe è così risibile che ha scarso effetto deterrente e non vale nemmeno lo sforzo per chi si ritenga danneggiato imbarcarsi in un procedimento per quattro spicci.

E veniamo al domani, il possibile domani se si completerà il ‘viaggio’ del decreto. Succede che gli atti già conosciuti alle parti potranno finire tranquillamente nelle mani dei giornalisti che però potranno pubblicarli solo attraverso parafrasi, sintesi o comunque la si desideri definire.

Per esempio. A Milano è stato appena firmato un protocollo tra Presidenza del Tribunale, Procura, rappresentanti degli avvocati e dei giornalisti che prevede la possibilità di avere in tempi rapidi le ordinanze di custodia cautelare e farne cio’ che si vuole, sempre seguendo i canoni deontologici e il rispetto della presunzione d’innocenza. Ovviamente la nuova legge imporrebbe solo un più o meno efficace e veritiero ‘racconto’ dell’ordinanza per i novelli ‘Omero’ delle cronache giudiziarie.

Naturalmente, se la logica ci supporta, finirebbe anche l’invio da parte delle forze dell’ordine, con l’ok delle procura, di video pedinamenti, audio o trascrizioni di intercettazioni che le parti ignorano.

C’è un però: al momento non sono previste sanzioni per le violazioni e lo spirito del decreto sembra più  che altro sostenuto da una logica del ‘Ve lo diciamo noi cosa pubblicare’. Naturalmente, e confessiamo che è un pensiero molto malizioso, il tutto dovrebbe valere sia per il Messina Denaro arrestato, sia per l’’ndranghetista, sia per lo spacciatore, sia per il femminicida e sia per il politico. Naturalmente.

“Mi sento in colpa per la strage di piazza della Loggia”. Il verbale esclusivo della superteste

Aula del tribunale dei Minori di Brescia, 20 settembre 2024.

Le porte sono chiuse al pubblico e ai media perché si sta processando un signore di 67 anni che mezzo secolo fa ne aveva 16, si chiama Marco Toffaloni ed è imputato perché viene ritenuto uno dei due ragazzi che infilarono in un cestino la bomba della strage neofascista di piazza della Loggia.

‘Giustiziami’ è entrato in possesso del verbale dell’udienza in cui cinque decenni dopo, per la prima volta, la supertestimone della nuova indagine, della quale non faremo il nome su richiesta della nostra fonte, snocciola parole accorate e importanti rispondendo alla pm Cathy Bressanelli, alla difesa e alla Corte. E si batte una mano sul petto. “Mi sento in colpa di essere stata troppo ingenua, mi sento in colpa…Ma mi sento in colpa per tutto a dire la verità, anche per la strage, anche perché se avessi parlato prima forse, diciamo, la parte civile (i familiari delle vittime, ndr) non avrebbe sofferto tutti questi anni. Però è anche vero che io ho salvato la mia pelle, sono riuscita a vivere in questi anni e ho fatto tante cose e soprattutto ho una bella famiglia e, di anno in anno, per salvaguardare tutto questo ho preferito agire così, cioé stare…Nascondere in pratica. Però io allora, per quanto mi possa sentire in colpa, diciamo che non avevo proprio capito fino a che punto Silvio avesse  questa sua….Chiamiamola missione, non so come definirla perché era tanto giovane anche lui. Certo il fatto che è successo dopo è ancora più grave della sua morte…Ma io non potevo farci nulla, non lo sapevo. Io pensavo veramente ancora al Blue Note, ancora una vendetta, chi lo sa, magari una vendetta su che cosa”.

Batticuore

Bisogna allora tornare a quei tempi di amore e morte quando la ragazza si invaghì di Silvio Ferrarri, neofascista ma anche informatore clandestino e infedele delle forze dell’ordine, un personaggio che traccia una linea nella storia perché, sei giorni prima dell’attentato, saltò in aria a bordo della sua Vespa in piazza Mercato trasportando dell’esplosivo. Venne in contatto anche con ‘Tomaten’, così veniva chiamato l’imputato per il rossore che infiammava le sue guance, e cominciò a frequentare gli ambienti di destra estrema nei quali maturò l’idea della strage del 28 maggio 1974 quando venti persone caddero per l’esplosione sull’asfalto viola per la pioggia mischiata al sangue e un centinaio rimasero ferite consegnando i loro nomi alla memoria di una delle più tremende pagine del Novecento italiano.

Sono pochi mesi di batticuore, “tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974”.

“Ha cominciato a piacermi, io a lui e ci siamo messi insieme. Silvio Ferrari mi portava in un appartamento di via Aleardi a Brescia dove noi ci incontravamo per flirtare e lì ho capito la sua passione per la politica. Il mio approccio con questo appartamento era solo per amoreggiare. Silvio aveva una grande macchina fotografica e lì sviluppava delle fotografie. Erano foto di persone che poi nel tempo ho visto personalmente, quindi militari e civili e poi di addestramenti, montagne…Nei mesi che precedono la morte di Silvio in quest’appartamentino c’era un andare e venire di persone. Silvio dava a queste persone delle buste chiuse e riceveva altrettante buste. Armi? Solo una volta ho visto una pistola sotto il materasso. Ho capito chi erano quelle persone, dopo la strage, quando sono stata perquisita e interrogata”.

Di quei giorni evoca anche una discussione in auto tra Toffalon e Ferrari. “Eravamo su una Bmw, qualche settimana prima della morte di Silvio. Di quella discussione mi è rimasto impreso che Silvio non voleva più fare quello che Toffaloni voleva che facesse. Io credo che questa storia ruotasse attorno al Blue Note. Non vorrei parlare di attentato perché questa parola non lo so….forse mi dà fastidio e mi ricordo che si doveva fare assolutamente di sabato perché oltre a colpire Bruschi si doveva colpire anche un funzionario della Questura che andava sempre al sabato in questo locale.  Non lo so come mi sono comportata, ero lì e basta. Solo quando io ho rimosso in questi anni e ho cominciato a pensarci esce fuori questo profilo di me, mi dispiace ma allora non capivo”. Il riferimento è a un attentato, poi sventato, in un locale bresciano che Ferrari si sarebbe rifiutato di fare. La superteste racconta anche di essere andata con Ferrari a Palazzo Carli, sede della Nato, e  in una caserma dei carabinieri a Parona, un po’ decentrata, vicino a un fiume. Poi, sempre legato alle riunioni di Parona, svela che a un certo punto Ferrari discusse col generale dei carabinieri Francesco Delfino “che raccomandò a Silvio che dopo l’estate doveva andare a Milano, continuare a lavorare per loro e allora gli avrebbero trovato un lavoro diciamo di copertura e avrebbe dovuto far lì delle cose per loro, poi sarebbe tornato. Ma questa opportunità gliel’avrebbe data solo se faceva questa cosa al Blue Note”.

“Tieni, sono le foto della salvezza”

Prima di andare a Milano, ecco un altro passaggio cocente della testimonianza. “Silvio mi consegnò dellle fotografie. Erano quelle che stampava delle riunioni di Parona e dei partecipanti. Io ho sempre detto che non le ho guardate ma invece una sbirciata gliel’ho data. Me le diede prima di morire, ho un ricordo di un Silvio molto diffidente nei confronti dei suoi amici. Il pacco lo nascosi in pizzeria sotto le guide telefoniche. Lui mi disse ‘tienile perché sono la nostra salvezza’. Ho capito cosa voleva dire quando le ho viste cioé che Delfino non avrebbe più potuto fare niente perché in quelle foto c’era anche lui”.

Il suo  è il sinistro affresco di quello che, nonostante si stiano svolgendo ancora due processi perché la verità è incompleta, è ormai chiarissimo: in quella strage, come in altre italiane, molte figure istituzionali, fecero ballare i fili neri dell’eversione. La testimone li riconosce quasi tutti, quando gli vengono mostrate le immagini in aula. Toffaloni, in particolare, era “quel bel ragazzo” che andava allle riunioni a Verona. “Io e Silvio ci andavano durante la settimana, sempre al pomeriggio, per tornare poi tipo alle sette di sera. Era sempre inverno, era sempre freddo”.

Tra la morte di Silvio e la strage c’è stato un altro incontro in pizzeria coi veronesi di Ordine Nuovo. “C’erano Nando Ferrari,Toffaloni, Zorzi e Siliotti. Succede che praticamente hanno mangiato, io servivo e ho raccolto queste…Questa frasi per cui mi rendo conto che vuole fare una vendetta nei confronti della morte di Silvio e sento Zorzi, che è quello più caldo del gruppo, che dice che questa cosa la vuole fare, la vuole fare lui”.

“Dicono di cosa si tratterà, di dove avverrà?”No, io ho sempre pensato che volessero ritentare, forse allora ho pensato che non aveva fatto una cosa Silvio e la facevano loro, però sempre con riferimento al Blue Note”. “Quindi in quell’occasione loro non dicono nulla che faccia pensare a Piazza….?”. “No, però lo dissi a Sandrini che era un carabiniere del Nucleo Delfino, poi l’ho rivisto dopo e lui mi disse di non parlare mai dei carabinieri se no avrei avuto dei casini”. La pm Bressanelli vuole sapere come sia affiorato il desiderio di esporsi così tanti anni dopo e fa domande sul colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, la cui credibilità è stata messa in dubbio da  Donatella Di Rosa, ‘Lady Golpe’, che l’ha denunciato per stalking.

Un carabiniere “sano di mente” 

“Non gli ho mai detto una cosa che non fosse vera. Ho dovuto piano piano fidarmi di lui e forse anche lui di me, ho avuto bisogno di capire se mi trovavo di fronte a un carabiniere sano di mente…c’è voluto molto tempo”. “Perché tanti verbali si interrompono?”insiste il magistrato. “Perché c’erano dei momenti che proprio non avevo….ero proprio stanca di rivangare certe cose e siccome volevo essere molto precisa con lui avevo bisogno di riflettere, quindi lui mi lasciava andare e poi ritornava. Non mi ha mai suggerito niente, non ho mai capito dove volesse arrivare”. “Perché in passato ha reso dichiarazioni diverse?”. “Ogni volta o c’era l’avvocato che mi diceva di non parlare o c’era la famiglia che mi diceva di non parlare. Io ho fatti vari tentativi ma poi ero bloccata dalle circostanze. Questa volta sono andata sola dal Colonnello e ho fatto quello che volevo. Ho temuto per la mia vita quando sono diventata grande, quando mi sono resa conto che era stato molto pericoloso quello che era successo”. (manuela d’alessandro)

 

 

 

 

 

 

 

Il nuovo reato sulla patente sospesa per droga non è come sembra

“Drogarsi è da coglioni, mettersi alla guida da drogati è da doppi coglioni”, così il ministro Salvini annunciava che, con la riforma del codice della strada che ora il Senato si appresta ad approvare, avrebbe finalmente fatto “ritirare la patente a chi viene trovato alla guida drogato”.

Non serviva una riforma: Salvini forse lo ignora, ma il reato esisteva già e prevede appunto, per chi sia colto alla guida in condizione di alterazione psico-fisica dovuta all’assunzione di sostanze stupefacenti, oltre alla condanna, la sospensione della patente di guida.
Allora cosa prevede il nuovo reato? La punizione non più di chi guida “sotto l’effetto” ma “dopo aver assunto stupefacenti”. Sembra una piccola differenza, ma è sufficiente per trasformare una norma in tema di sicurezza stradale nel cavallo di troia per una svolta in senso proibizionistico della nostra legislazione.
La procedura che verrà introdotta prevede che, per l’accertamento della presenza di tracce di sostanze stupefacenti nell’organismo, la polizia potrà sottoporre il guidatore a un tampone salivare. Se il test è positivo, denuncia e patente sospesa. Il problema è che non è affatto detto che chi risulti positivo ad un simile esame sia ancora sotto l’effetto della sostanza. Infatti, diversamente dall’alcool, le sostanze stupefacenti, anche le droghe leggere, tendono a lasciare nell’organismo tracce biologiche persistenti, che permangono ben oltre il tempo necessario a smaltire l’effetto: per giorni, anche per settimane.
“Se ti stronchi di canne e guidi, io ti ritiro la patente”, dice Salvini. Bene; ma così la patente la ritiri anche a chi ne ha fatto un uso moderato (o terapeutico), magari giorni o anche settimane prima di guidare.
Il fatto che al momento del controllo la persona fosse perfettamente lucida è irrilevante. Qual è il senso? Il senso c’è, ma non è quello di sicurezza che viene dichiarato. Il vero obiettivo della norma è di natura etica: punire l’uso personale.
Difficile non collegare questo intervento con la proibizione della cannabis legale, quella priva di effetto drogante, introdotta con il pacchetto sicurezza e non collocare il tutto in un disegno più ampio. Ed eccolo, il vero volto del governo più a destra della storia repubblicana: un po’ bacchettone, un po’ berbenista, un po‘ ipocrita, molto opportunista.
Il disegno di legge deve ora essere votato in Assemblea. Fino a martedì è ancora possibile presentare emendamenti. Durante l’esame in commissione solo i senatori di AVS sembrano essersi accorti del problema. Salvini a parte, veramente le altre forze politiche non vogliono intervenire per modificare una norma così illiberale?
avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini