giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Mani pulite, 25 anni fa la grande farsa. E non è finita…

 

“Intervista Borrelli”. “Intervista D’Ambrosio”. Dai capi dei giornaloni era un continuo di richieste ai loro uomini (e donne) sul campo. “Intervista su che?”. “Su quello che vogliono loro”. E andò a finire a un certo punto che a Borrelli e D’Ambrosio furono sollecitati pareri persino sull’America’s Cup di vela.

C’era un paese ai piedi di quattro signori del quarto piano che avevano vinto un concorso. Correva l’anno 1992. La corruzione c’era pure prima del mitico ’92, solo che le procure, Milano in testa, avevano fatto finta di non vederla. Poi “all’improvviso” le toghe si svegliarono. Perché la politica era diventata debole e perché la magistratura aveva da incassare il credito acquisito un po’ di lustri prima quando le era era stato delegato il compito di risolvere la questione della sovversione interna (“anni di piombo” ,”terrorismo” definizioni anche tecnicamente sbagliate ma lasciamo perdere).

Le toghe saltarono al collo dei politici gridando: “Adesso comandiamo noi”. E così fu. Mani pulite, un regolamento di conti all’interno della classe dirigente di un paese, con la scusa della “lotta alla corruzione”. L’azione penale fu essercitata fino in fondo a macchia di leopardo secondo convenienze e opportunità della magistratura. La fecero franca i grandi imprenditori che erano editori dei giornali i quali appoggiarono l’inchiesta sapendo di avere scheletri negli armadi. Un do ut des in piena regola. Su Fiat si fece finta di indagare, su Mediobanca neanche quello. L’editore di Repubblica se la cavò con un buffetto. Tutto a scapito dei politici che pagarono a eccezione di un partito, quello che poi manderà in Senato via Mugello l’uomo simbolo di Mani Pulite, molto attivo nel vivere a scrocco degli inquisiti del suo ufficio, insomma un esempio di alta moralità.

E non fu una questione di toghe rosse. L’operazione aveva bisogno di una sponda politica per evitare in caso di indagini vere su tutti il varo di un’amnistia da parte del Parlamento.

Due pesi due misure, l’utilizzo della custodia cautelare per ottenere confessioni, ammissioni, “per avere l’osso”. Folle vocianti e acclamanti in corso di porta Vittoria, bandiere e simboli di tutti i partiti dall’Msi al Leoncavallo. “Di Pietro non mollare”. “Borrelli facci sognare”. Le telecamera in prima fila erano quelle di Berlusconi che in realtà non aveva capito nulla, visto che sarà poi l’unico grande imprenditore ad essere inquisito fino in fondo dal momento della discesa in campo.

Tonino da Montenero iniziò anche a delirare: “Mani pulite nel mondo”.  Poi clamorosamente lasciò. “Mi tiravano per la giacchetta” fu una delle 752 versioni dei fatti che diede. Ma contro non c’erano “veleni”, come ancora oggi sostengono gli orfani della grande farsa, ma fatti veri, dai prestiti a babbo morto alle auto ai cellulari con bolletta pagata. A livello penale si salvò a Brescia, complice un comunicato con cui l’Anm per la prima volta nella sua storia si schierò con l’indagato. Ovviamente fu anche l’ultima.

Mani pulite servì alla magistratura per aumentare il suo potere nei confronti di una classe politica che arrivò perfino a suicidarsi abolendo l’autorizzazione a procedere e a un singolo magistrato per arricchirsi fino all’Italia dei valori immobiliari

E’ cambiato qualcosa? Poco. La corruzione c’è sempre. Allora i magistrati acquisivano potere soprattutto facendo le indagini o facendo finta di farle, adesso anche non facendole. La moratoria Expo è in stile Mani pulite. Expo insomma è la Fiat del terzo millennio. Berlusconi si scontrava con le toghe e lo fa ancora oggi perchè non lo lasciano in pace nemmeno in camera da letto. Renzi ringrazia la procura di Milano “per il senso di responsabilità istituzionale” che ha permesso a Peppino Sala di diventare sindaco di Milano direttamente dalla gestione di Expo. Non tutti i conflitti di interessi sono uguali perché alcuni sono a fin di bene, come del resto certi reati. (frank cimini)

Poche risorse ma spunta uno scintillante tappeto rosso in procura generale

 

Eh certo: le risorse scarseggiano, la spending review taglieggia gli uffici giudiziari. Ma come si può rinunciare a quel po’ di pompa magna senza la quale la Giustizia rischia di ridursi al rango di qualunque burocrazia pubblica? E cosa simboleggia la pompa di qualunque Autorità meglio di un bel tappeto rosso, visto che ai valletti in livrea si è dovuto – ahimè – rinunciare da tempo?
Così ecco che la Procura Generale di Milano, da poco più di sei mesi guidata dall’Eccellenza Roberto Alfonso, decide di fare la sua parte per restituire all’istituzione giudiziaria – a partire da sè medesima Procura Generale – il decoro appannato. E nel corridoio che porta al cuore del prestigioso ufficio appare da oggi uno splendido tappeto rosso.

Le avvisaglie si erano avute già prima della fine dell’anno,  nelle ore convulse del “caso Sala”, scatenato dalla decisione della Procura Generale di avocare l’indagine sul sindaco di Milano per gli appalti di Expo. Ebbene, in quei giorni di polemiche e di attese, con i cronisti inutilmente accampati davanti alla porta dell’Eccellenza Alfonso in attesa di qualsivolesse conferma o smentita o spiegazione, nel corridoio avevano fatto la loro comparsa tre operai armati di metro a nastro, che avevano iniziato a misurare meticolosamente il lungo ambulacro: interrogati sul senso dell’operazione, si erano lasciati sfuggire che l’attività era propedeutica alla posa del tappeto.
Poi non se ne era più saputo più nulla, e si temeva che le ristrettezze di bilancio avessero costretto ad un ripensamento. E invece ecco che il prestigioso manufatto ha fatto la sua apparizione, ridando il giusto look ai (circa) trenta metri che ogni mattina il Procuratore Generale deve percorrere nel tragitto dall’ascensore alla vasta stanza da cui esercita il suo ruolo: trenta metri di morbida stoffa purpurea che attraversano un doppio filare di ficus da fare impallidire i cipressi di Carducci. La pompa è salva.
Buon lavoro agli aspirapolvere.

Il gip di Milano, “Mozzarelle al procuratore capo di Aosta in cambio di favori”

Mozzarelle in cambio di favori. A ricevere a domicilio gioielli dal profumo campano della morbida pasta filante sarebbe stato il procuratore  di Aosta Pasquale Longarini dall’amico imprenditore Gerardo Cuomo. Scambi caseari nell’ambito di un’amicizia che, secondo la Procura di Milano, avrebbe assunto contorni di rilievo penale tanto da portare ai domiciliari sia il magistrato già autore delle indagini sul delitto di Cogne sia l’imprenditore Gerardo Cuomo che si autodefinisce “un massone” e nella valle ha eretto da anni un santuario dei formaggi che spazia dalla locale fontina all’esotica mozzarella.

“A fronte della sollecita disponibilità nei confronti dell’amico imprenditore” – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare in cui è ipotizzato a carico di entrambi il reato di ‘induzione indebita a dare o promettere utilità - Longarini avrebbe ricevuto “forniture di prodotti caseari”, e “favori, se non delle vere e proprie remunerazioni, come nel caso del viaggio in Marocco effettuato dal 13 al 15 settembre scorso (…)”. In particolare, è scritto in una nota del provvedimento, gli inquirenti vedono il 23 maggio 2015 “Cuomo uscire dalla propra azienda casearia insieme a Longarini e caricare uno scatolone di merce sul sedile posteriore della jeep di proprietà” del magistrato. Inoltre, da alcune conversazioni intercettate il 10 luglio 2016, “si comprende che Cuomo si reca verso le ore 20 e 30 a casa di Longarini per consegnargli delle mozzarelle”. Longarini in cambio si sarebbe interessato presso la Questura di Aosta “per far ottenere – senza peraltro riuscirvi – a un dipendente di Cuomo il rilascio della carta di soggiorno, necessaria per la stipulazione di un contratto di mutuo”. E avrebbe fatto delle “segnalazioni al primario di ortopedia dell’ospedale di Aosta affinché Cuomo in pronto soccorso per una sospetta frattura dovuta a un infortunio sul lavoro ricevesse cure sollecita da parte dei sanitari presenti”.

Secondo l’accusa, Longarini, da più di vent’anni ‘toga’ nella valle, avrebbe chiesto a un albergatore, che in quel momento stava indagando per fatture false e frode fiscale, di favorire il suo amico Cuomo affidandogli un appalto per la fornitura di prodotti caseari del valore di 70mila euro all’anno. Di qui l’accusa di ‘induzione indebita a dare o promettere utilità’, quella che nella vecchia formula si chiamava concussione. All’imprenditore, socio di un hotel di lusso a Courmayer, il magistrato avrebbe assicurato un trattamento di favore nell’indagine da lui coordinata.  (manuela d’alessandro)

Il 9 aprile 2019 il gup Guido Salvini ha assolto Pasquale Longarini, Sergio Barathier e Gerardo Cuomo ‘perché il fatto non sussiste’.

I furti a Milano? Le denunce non si prendono “se non sono clamorosi”

 

 

A Milano le denunce di furto, anche quando si hanno sospetti ben precisi su chi sia stato l’autore, non vengono prese in considerazione “a meno che non si tratti di casi clamorosi” dove per “clamorosi” non si capisce esattamente cosa si intenda. Ce lo racconta l’avvocato Alessia Sorgato che se lo è sentito dire dall’impiegata all’ufficio ricezione atti della Procura.  “Mi ero presentata con tutti i sacri crismi: atto di nomina della parte lesa, sua carta di identità e denuncia in caserma in cui la mia cliente identificava chi aveva commesso il reato. Sappiamo tutti da 20 anni che le denunce contro ignoti non hanno seguito, ma qui la persona era ben  identificabile! L’impiegata però ci ha detto che non l’avrebbe rubricata nel sistema e me l’ha restituita spiegandomi che queste sono le direttive a meno che non sia qualcosa di clamoroso. E mi ha invitata a fare apposita istanza se il nostro fosse un caso particolare”.

Al di là dello sconcerto per il no incassato alla ricezione atti, Sorgato fa notare le gravi conseguenze sui cittadini che può avere questo orientamento: “La prova del reato di ricettazione passa attraverso la denuncia di furto. Senza, non è possibile far valere nessun diritto su un oggetto di cui siamo stati derubati, nemmeno se lo riconosciamo come nostro”.   (manuela d’alessandro)

Assolta avvocatessa accusata di avere calunniato giudice milanese

Un giudice di Brescia assolve un’avvocatessa dall’accusa di avere calunniato un suo collega magistrato ‘perché il fatto non costituisce reato’. Succede, e quando succede è sicuramente una notizia.

La toga milanese Benedetto Simi De Burgis aveva querelato il legale per calunnia perché lei lo aveva accusato di avere pronunciato frasi “offensive, denigratorie e umilianti” nei suoi confronti, durante un procedura in cui era curatrice, “finalizzate a farle togliere gli incarichi”.

Due a zero per l’avvocatessa (parziale, De Burgis farà senz’altro appello) perché la vicenda penale deriva da una disciplinare, chiusa con un provvedimento definitivo di ‘censura’ da parte della Corte di Cassazione a carico del magistrato per avere tenuto “un tono irridente e allusivo” nei confronti della curatrice. Il legale aveva fatto scattare il procedimento disciplinare lamentadosi col presidente della sezione in cui lavora De Burgis del contenuto di alcuni scritti, da lei ritenuti offensivi, e lui aveva ribattuto denunciandola per calunnia. De Burgis, stando a quanto scritto dalla Cassazione, si era preso gioco dell’avvocatessa ironizzando sulla sua esosa richiesta di liquidazione rispetto al patrimonio da lei amministrato e su altre strategie procedurali del legale nell’ambito di una procedura per la nomina di un ammistratore di sostegno. Nel suo ricorso alla Cassazione, dopo una prima censura del Csm, il giudice si era difeso sostenendo che la donna avesse “specifici motivi di astio” contro di lui. (manuela d’alessandro)

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