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Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

La Popolare di Bari, Csm e politica, la vera storia

Ogni presidente ha la sua banca. Sarà sicuramente una coincidenza ma ad ogni cambio del numero 1 di Palazzo dei Marescialli cambia anche la banca che svolge il servizio di tesoreria er il Csm. E ogni volta la banca scelta è “legata” in qualche modo al feudo elettorale del capo di piazza Indipendenza,

Durante la gestione di Michele Vietti piemontese in quota Udc la cassa era gestita da Intesa San Paolo il maxi gruppo torinese. Arrivato Giovanni Legnini abruzzese e renziano di stretta osservanza la cassa passa alla Popolare di Bari. L’istituto di credito pugliese che qualche mese dopo l’insediamento di Legnini aveva acquistato la cassa di risparmio di Teramo, la Tercas.

Questo affidamento è venuto con un bando pubblicato nel 2015 durante la settimana di Ferragosto quando il Csm è chiuso. L’unico requisito era “l’offerta economicamente più vantaggiosa”. Banca Popolare di Bari era già sotto gli occhi della Banca d’Italia per la gestione allegra del credito avendo appena rilevato la banca di Teramo sull’orlo del fallimento.

L’acquisto della banca abruzzese era stato il colpo di grazia per le finanze della  Popolare di Bari salita la scorsa domenica con l’iniezione da parte del governo di 900 milioni d euro.

Per vincere il bando, Bpb mise sul piatto una offerta irrinunciabile: mutui scontati per tutti i dipendenti del Csm e super scoperto del conto del 26 per cento normalmente praticato dalla concorrenza. Soldi di fatto “regalati” per i signori magistrati.

A parte l’anomalia di un bando di tale importanza pubblicato a Ferragosto possibile che nessuno abbia mai avuto il sospetto che questa offerta fuori mercato nascondesse una gestione disastrata come poi si è scoperto della banca barese?

Nessun magistrato del Csm ha mai provato imbarazzo per simili condizioni di fatto non praticate nemmeno ai dipendenti bancari da parte di un istituto di creditori all’epoca molto chiacchierato? Bpb gestisce il patrimonio del Csm. Circa 40 milioni l’anno solo di depositi di cassa. Vanno aggiunti gli stipendi e altre voci. (frank cimini)

“Mi sedetti su un gradino della banca e cambiò la mia vita”

Tutto per Achille Serra, poi Questore di Milano, Prefetto di Palermo, Firenze, Roma e senatore della Repubblica, inizia il 12 dicembre 1969 quando il capufficio Ernesto Panvini decide di mandarlo in piazza Fontana “per imparare”, mettendosi alla prova con quella che sembrava un’attività di routine. “Avevo 27 anni, dopo la laurea in Legge e il concorso sono arrivato a Milano, ero un apprendista commissario – racconta – mi avevano messo alla centrale operativa per fare esperienza sul campo. Arrivò al 113 una telefonata anonima in cui si riferiva che era scoppiato un tubo del gas e c’erano uno o due feriti. Panvini annunciò  che toccava a me perché era una buona occasione per apprendere il mestiere.  Appena giunto in piazza Fontana con altri due colleghi a bordo della volante ‘in sirena’, mi resi subito conto che non era affatto una cosa da poco”.

Le immagini e gli odori sono nitidi nel suo ricordo: “Vidi che tutti i vetri dei palazzi circostanti erano frantumati e avvertii un odore di carne bruciata. Quando entrai, mi si spalancò uno ‘spettacolo’ che, ancora oggi, a 50 anni di distanza, ho negli occhi: c’era un uomo vicino all’ingresso tagliato in due, mezzo tronco e mezzo sangue. In mezzo a un fumo indescrivibile e alle urla dei feriti, scorsi alcuni arti staccati dai corpi”. In quel momento, il giovane poliziotto capì che doveva avvertire i suoi superiori: “Mi attaccai alla radio e invocai almeno un centinaio di ambulanze, ma dalla centrale operativa mi presero per pazzo. Mi dissero: ‘Sei giovane, non ti preoccupare, vedrai che si risolve tutto, adesso mandiamo il funzionario anziano’. Rientrai e la prima cosa che volli fare, siccome c’era tantissimo fumo, fu quella di aiutare i feriti che non riuscivano a uscire. Era molto difficile perché al centro della sala c’era un buco enorme, una voragine. Si sentiva un penetrante odore di mandorla perché la bomba aveva lasciato questa sensazione olfattiva”.  La scena si era animata all’improvviso e con violenza: “Eravamo vicini al Natale e i milanesi andavano fuori per le spese. Appena sentito il botto, la gente si riversò su piazza Fontana e arrivarono di corsa a sirene spiegate le ambulanze, le auto dei vigili del fuoco, dei carabinieri, della polizia”. In quel momento la vita di Serra prese una direzione non prevista, senza possibilità di ritorno. “Dopo avere fatto tutto che quello che potevo, mi sedetti sconvolto sul gradino della banca insieme a Panvini. Avevo preso da poco la decisione che, dopo l’esperienza milanese, sarei andato a Roma per diventare avvocato. Ma in quell’istante, in piazza Fontana, fui certo che sarebbe stato molto più opportuno restare in polizia per difendere la sicurezza e la legalità”. Dei funerali Serra ricorda “un’intera città che piangeva e l’omelia del cardinale Colombo. Non scorderò mai che, quando arrivò in piazza Fontana, si inginocchiò sul cadavere ‘mezzo uomo e mezzo sangue’ e lo benedisse, come poi fece con tutti gli altri”. Tra i sentimenti ancora vivi a 50 anni di distanza “c’è il rancore per quel governo che non trasferì il mio carissimo amico Calabresi, che, dopo la la morte di Pinelli, subì un ‘omicidio quotidiano’ e non gli diede la scorta. Quello era il momento in cui si chiedeva il disarmo della polizia. Un periodo terribile a cui guardo ancora con amarezza e stupore”. La giustizia ha stabilito che gli autori della strage appartenevano al gruppo di estrema destra di Ordine Nuovo. E’ una risposta sufficiente per Serra? “”Preferisco non rispondere, io ho una mia idea su quello che accadde e la tengo per me”. (manuela d’alessandro)

 

‘Gli sfiorati’, Steccanella sgretola le certezze di una generazione

 


“Appartengo alla generazione di quelli che hanno mancato gli appuntamenti più significativi. Troppo piccolo per vivere da protagonista gli anni Sessanta e Settanta e troppo vecchio per godere degli stupefacenti sviluppi tecnologici del millennio”.

Davide Steccanella è uno sfiorato, appena lambito dalle contestazioni giovanili e dal furore omicida di quella stagione che traboccava di sangue e sogni. Figlio della levigata borghesia milanese, si increspa da ragazzo per il calcio, il divertimento  e la musica rock, tiene a distanza siderale la politica e diventa avvocato con l’ossessione di “cercare il punto”, come gli insegna il suo maestro in toga Ludovico Isolabella.  Finché, durante una vacanza in Spagna, ormai professionista affermato e uomo che, direbbe Montale, “l’ombra sua non cura”, divora un libro con Aldo Moro in copertina e si infligge delle domande su quelle che per lui erano state fino a quel momento verità intangibili, “il pensiero di ogni buon democratico che legge Repubblica, esalta la legalità e a ogni elezione vota obbediente il nominativo indicatogli dal centrosinistra riformista”.

Da questo momento è come se il ragazzo distratto negli anni in cui tutto gli arrivava come calore di fiamma lontana  abbia una seconda possibilità per gettarsi nell’incendio di quella che rappresentò al tempo stesso primavera e tomba di una generazione. Con un’indagine storica alla Javier Cercas, l’io narrante compie un viaggio nei luoghi della sua città toccati dagli avvenimenti di quegli anni, quasi avesse la necessità di tastare le pietre e calpestare passi antichi per capire, e nel cuore di chi, amici e non, anche colpevoli per sentenza definitiva, ha vissuto e conosciuto quello che lui ha ignorato.

“Chi oggi si preoccuperebbe di manifestare per l’Angola?”, è la riflessione che porta Steccanella a misurarsi con la voragine tra la generazione pronta a morire per chi viveva in emisferi remoti e quella degli sfiorati, aggrappati a un individualismo diventato edonista negli anni Ottanta, marchiati dalla fuga nella droga.

“Nel 1968 Milano era una città molto diversa da quella di oggi. Era meno colorata ma sembrava più in rilievo perché era più mossa e meno plastico da modellino. Le persone che andavano a piedi sembravano più visibili e tangibili e si sparpagliavano maggiormente rispetto a quella massa informe che oggi si vede marciare, quasi compatta, verso una meta precisa a orari prefissati”.

Con uno sguardo candido e puntiglioso, nutrito da letture a perdifiato, Steccanella fa alzare “l’onda rimossa” di quegli anni sommergendo le comuni certezze: “Avevo scoperto che la stragrande maggioranza dei brigatisti  erano operai e, in gran parte, emigrati dal sud o comunque dei proletari. Questo significava che, contrariamente a quanto aveva sempre raccontato il PCI, non era vero che le Brigate Rosse fossero ‘nemiche degli operai’ (…) Dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse e non erano affatto un fenomeno momentaneo”. A permettergli di centrare finalmente “il punto”, dopo una spasmodica ricerca, sono le parole dell’’Irriducibile’, ormai vecchio e malato, capaci di restituire a tutto il libro il respiro di un pezzo del Novecento che attraversò come una febbre incurabile  diversi angoli del pianeta, non solo Milano, non solo l’Italia. E solo nel volto di un uomo prossimo alla fine, Steccanella cessa di essere uno sfiorato e viene posseduto, da ora e per sempre, da un sentimento assoluto di appartenenza. (manuela d’alesssandro)

Gli sfiorati di Davide Steccanelli, edizioni Bietti, pagg. 214, disponibile alla libreria Accademia di corso di Porta Vittoria e nelle librerie Feltrinelli. Il romanzo ha vinto il premio ‘Avvocati e Autori’ della Lombardia. 

 

 

Scalfarotto come Hitler, youtuber a processo

Ivan Scalfarotto come Adolf Hitler per le sue politiche a tutela dei diritti civili. C’è anche questo nell’abisso della rete, nel canale Mary Tube “consacrato a Maria Regina della Pace e Madre della Verità per l’evangelizzazione attraverso il mezzo video”. Chi ha postato quel video, Ivan R., 44 anni, sarà processato dal Tribunale di Parma il prossimo 28 novembre per diffamazione aggravata, su denuncia del parlamentare del Pd, assistito dall’avvocato Davide Steccanella. Nel filmato pubblicato l’8 luglio 2015,  si vede la  foto di Scalfarotto, seguita nel fotogramma successivo da quella del dittatore e poi dalla frase: “La storia tende a ripetersi. Il male assume nuove forme per imporre la dittatura di una ideologia. Le ideologie vanno sempre imposte fin dalla più tenere età”. Nella querela, il politico definisce il video, intitolato ‘Stop ideologia gender, colonizzazione ideologica’, “una gravissima offesa a dir poco infamante a fronte di una pubblica comparazione con colui che è considerato probabilmente il più feroce dittatore della storia umana e per di più con quell’odioso insistente richiamo alla tutela infranta dei bambini”. Sottolinea, inoltre, anche il suo impegno per i diritti civili “in ragione del quale ho dovuto subire in questi anni numerosi attacchi alla mia persona”.  Il filmato e mostra “anche immagini di bambine e bambini durante la tristemente nota ‘Hitler jugend’”. (manuela d’alessandro)

Un anno ai domiciliari per errore di carabinieri, giudici e avvocato

Per un errore dei carabinieri, di un magistrato e anche del suo primo avvocato, Donato C., 43 anni, ha trascorso un anno agli arresti domiciliari quando avrebbe dovuto essere libero, come stabilito da un giudice. Addirittura è stato processato per evasione dai domiciliari che non avrebbe dovuto scontare, finendo assolto con sentenza del 6 novembre scorso.

La sua storia, comprese le ammissioni  dello sbaglio da parte dei protagonisti, è contenuta in una serie di atti processuali. Il 13 luglio 2017, il Tribunale di Milano dispone per Donato C., che si trovava a San Vittore dopo essere stato condannato a un anno e tre mesi per favoreggiamento di un latitante, l’immediata scarcerazione’ e la remissione in libertà “considerato che, nonostante i precedenti penali, non aveva mai subito carcerazioni e che, pertanto, si ritiene che la presente vicenda processuale possa sortire adeguato effetto deterrente e non si renda necessaria l’applicazione di ulteriori misure cautelari”. La sua condanna avrebbe quindi potuto e dovuto scontarla con le misure alternative, come l’affidamento in prova.

Quella sera stessa, si presenta alla stazione dei carabinieri di Rozzano esibendo il provvedimento firmato dal giudice. Il militare di servizio nella caserma, è scritto in una nota in cui il Comandante della stazione ammette lo sbaglio, “nell’erroneo convincimento che si trattasse della sostituzione della custodia cautelare con la misura meno afflittiva dei domiciliari redasse il verbale di sottoposizione che certifica che, da quel momento, il Comando ha assunto l’onere dei controlli sulla persona sottoposta a misura restrittiva”. L’errore viene ‘raddoppiato‘, sempre lo stesso giorno, quando il suo legale presenta al Tribunale un’istanza per autorizzare il suo assistito ad allontanarsi da casa per qualche ora al giorno per la spesa, le cure mediche e altre necessità quotidiane. E viene ‘triplicato‘ quando pochi giorni dopo, il 31 luglio, un giudice della sezione feriale del Tribunale non si rende conto che Donato C. dovrebbe essere libero e lo autorizza ad allontanarsi dalla propria abitazione dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 18. “Il fatto che questa vicenda kafkiana si sia protratta per un anno – si legge ancora nella nota del Comandante dei Carabinieri di Rozzano – è anche (o soprattutto) dovuto alla circostanza che il 31 luglio 2017 fu inviato il provvedimento col quale Donato C. venne autorizzato ad allontanarsi dalla propria abitazione”. La svolta arriva quando l’uomo, stanco di ripetere che un giudice lo aveva messo in libertà, si rivolge all’avvocato Debora Piazza la quale, incredula, attesta che effettivamente Donato C. è vittima di un grave errore giudiziario. Il 19 luglio 2018, Piazza manda una ‘diffida’ ai carabinieri di Rozzano nella quale sottolinea che il suo assistito è sottoposto a “un inspiegabile e del tutto ingiustificato provvedimento” e “ha scontato un anno di arresto domiciliari in modo del tutto illegittimo”. Il giorno dopo, arriva la revoca dei domiciliari.

L’esito grottesco di questa sequela di errori arriva quando Donato C. viene processato, su richiesta della Procura, per evasione perché si è allontanato “senza autorizzazione” dalla sua abitazione violando  – si legge nel capo d’imputazione – “l’ordinanza che ha disposto i domiciliari”. Accusa da cui è stato assolto il 6 novembre scorso ‘perché il fatto non sussiste’. Ora, tramite il suo legale, chiederà un lauto risarcimento per ingiusta detenzione. “E’ una vicenda che lascia basiti – commenta l’avvocato Piazza – e certifica la lontananza dei principi contenuti nei manuali del diritto dalla realtà”. (manuela d’alessandro)