giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Steccanella racconta il tribunale compresi “gli indifendibili”

“Alcuni imputati spesso per ragioni mediatiche sono di fatto considerati indifendibili. Ciò significa che essere il loro avvocato vuol dire non contare quasi nulla perché tutti quelli che incontri magistrati compresi ti ripetono che si è giusto assumere la loro difesa e denunciare l’eventuale lesiine dei loro diritti ma non si può fare molto pena la violenta reazione dell’opinione pubblica”. Gli indifendibili clienti dell’avvocato Steccanella sono Cesare Battisti e Renato Vallanzasca.
A loro l’avvocato dedica un capitolo del suo ultimo lavoro “La giustizia degli uomini” edito da Mimesis 234 pagine, 18 euro.
“Tutto ciò che riferirò è realmente accaduto perché la giustizia è amministrata da uomini per definizioni fallibili. Chi preferisce pensare che nei processi venga sempre accertata la verità farà meglio a lasciar perdere questo libro” avverte Steccanella.
Ma torniamo agli indifendibili il capitolo più interessante a parere di chi scrive queste povere righe. “Il caso Vallanzasca è stato per ne ancora peggiore del caso Battisti perché dopo lo schiaffo subito da un magistrato di sorveglianza ho dovuto rinunciare seppure con amarezza alla sua difesa. Questo giudice scrisse che per concedere la semilibertà a un ultra settantenne dopo 47 anni di galera e responsabile negli ultimi anni soltanto di un tentato furto di mutande in un supermercato occorreva ‘un percorso graduale’ senza considerare le relazioni favorevoli degli esperti del carcere e la disponibilità ad accoglierlo di due comunità di recupero”.
“Battisti è l’emblema del terrorista mentre Vallanzasca è semplicemente l’embkema del criminale” scrive l’avvocato Steccanella ricordando che Battisti prese parte a quella violentissima fase di lotta sociale armata che per circa 15 anni contrassegnò la storia del nostro paese.
Dopo la consegna di Battisti da parte della Bolivia in violazione degli accordi stipulati tra Italia e Brasile Steccanella ricorda che è stato impossibile ottenere un documento capace di spiegare la pericolosità del soggetto “in modo da poter impugnarla davanti alle sedi competenti”.
Una pericolosità che a distanza di oltre 40 anni dai fatti Steccanella definisce assurda. “Anche la semplice richiesta di ottenere cibo compatibile con il proprio stato di salute è sempre risultata difficile” ricorda il legale a proposito del riso in bianco negato a Battisti, “il solo protagonista di quel particolare periodo storico a scontare la pena in condizioni carcerarie speciali come fossimo ancora negli anni ‘70 in piena ‘emergenza terrorismo’, anni di cui peraltro sanno poco o nulla tutti quelli che si stanno occupando di lui ora”.
(frank cimini)

Steccanella: perché lascio la difesa di Vallanzasca

 


Visto che ieri è emersa la notizia a seguito dell’articolo sul carlino di Bologna, Ti mando la lettera-segnalazione che il 29 giugno ho inviato al Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano in cui racconto la (pessima) esperienza direttamente sperimentata nel caso in oggetto in questi 4 anni, motivando le ragioni della mia (dolorosa) rinuncia al mandato depositata il giorno stesso (24 giugno) in cui mi è stato notificato l’ennesimo rigetto dopo l’ultima udienza del 23 giugno.

Chiarisco che la Presidente del TDS di Milano (Dr.ssa Di Rosa) gode della mia massima stima, ma quanto accaduto nel caso in oggetto dimostra l’assurdo di un sistema organizzativo che prevedendo un continuo turn over fa si che ogni singolo magistrato che si trova quel giorno in udienza adotti decisioni che quello successivo disattende, risultando quindi incomprensibili e come tali non spiegabili al cliente (o almeno io non ci riseco non capendole io per primo).

Con grande amarezza ho quindi dovuto rinunciare ad un incarico che avevo assolto per oltre 4 anni con il massimo impegno e senza alcun compenso al solo fine di consentire per una persona che aveva trascorso 50 anni in galera (credo sia il record assoluto in Itala) il rispetto della nostra Costituzione che, contrariamente a quanto ritengono i vari Salvini et similia, non prevede che debba “marcire in galera” per un tentato furto di mutande di sei anni fa, neppure se si chiama V.

In sintesi mi sono sentito “preso in giro” anche nella mia (evidentemente ritenuta inutile) funzione oltre che vedere frustrato un faticoso lavoro di anni con operatori del carcere di Bollate, mediatori, cooperative di recupero ecc (tutti, debbo dire, straordinari)

Non ho neppure ritenuto di leggere il provvedimento di rigetto nella sua interezza dopo avere visto scritto che necessita di un percorso graduale un detenuto 70enne che ha trascorso l’intera vita dietro le sbarre e al quale restano non troppi anni di vita. (Avvocato Davide Steccanella)

 

 

 

 

 

 

 

“Figli della catastrofi”, l’amicizia tra un ex Br e un bandito della Comasina

 

Due vite parallele che si incrociano fino a saldarsi in un’amicizia profonda in carcere  e ora in un libro in uscita, ‘Figli delle catastrofi’, edito da ‘Le milieu’.  Le firme sono quelle di due protagonisti della storia criminale italiana del secolo scorso che stanno scontando l’ergastolo: Giorgio Panizzari, uno dei 13 reclusi di cui le Brigate Rosse, a cui apparteneva,  chiesero la liberazione in cambio del rilascio di Aldo Moro, e Tino Stefanini, ex componente della ‘banda Vallanzasca’, uno dei gruppi militari più feroci degli  anni Settanta.

“Siamo in due piani diversi,  ma ci aprono al mattino attorno alle 7 e la chiusura è alle 20, 30, così abbiamo modo di trascorrere il più tempo insieme, discorrendo a volte del nostro trascorso, leccandoci a vicenda delle ferite indelebili di quel gruppo di amici che non sono più con noi, raccontandoci a vicenda di quella malavita che è finita e noi, sopravvissuti in via d’estinzione! Magari davanti a un piatto di aglio, olio e peperoncino”.

Carcere di Bollate, autunno 2019, nella stessa sezione in cui è rinchiuso anche Renato Vallanzasca, il capo della banda che atterriva Milano. Questa scena intima e idilliaca arriva dopo  duecento pagine gonfie di turbolenze e azione in quella breve ma intensa parte delle loro vite in libertà perché  due terzi dell’esistenza l’hanno trascorsa in carcere. Il racconto è lucido, senza sconti, come quando Panizzari, oggi 70enne,  ricorda l’amico Martino Zicchitella, “che non era un uomo da situazioni ordinarie”, morto nel corso del fallito attentato al questore anti – terrorismo Alfonso Noce. “Coloro che l’hanno conosciuto bene, sanno bene che Martino non avrebbe voluto una morte diversa e io – aggiunge con orgoglio – l’ho conosciuto bene!”.

Quando gli venne negato il permesso di recarsi a dare l’ultimo saluto all’amico Agrippino che stava morendo, Panizzari provò a chiedere la semilibertà al giudice che gli chiese: “Lei cosa pensa oggi dei familiari di quella vittima che tanti anni fa ha ucciso?”. Lui rispose che non aveva ucciso nessuno e che non gli sembrava serio chiedere scusa 40 anni dopo a chi aveva subito un lutto così straziante solo perché in quel momento chiedeva un beneficio penitenziario. Il giudice, contro il parere del procuratore generale, gli concesse la semilibertà.

La vita di Tino “è stata un cumulo di pene iniziato dal 1970, da una condanna ancora minorenne con un susseguirsi infinito di reati sempre più gravi. Una vita trascorsa da sparatorie, evasioni, violenza, arresti e i benefici previsti dalle leggi che mi lasciavano ogni tanto qualche spiraglio di libertà”.  “Questo libro non inneggia  a nulla”, scrive nella prefazione l’avvocato Davide Steccanella, difensore di Panizzari ed esperto di terrorismo, spiegando che  il testo nasce dal “rispetto reciproco per le lotte portate avanti attraverso la rivolta contro la spersonalizzazione, contro un sistema repressivo, mai domi, sempre pronti ad urlare le loro ragioni”.  Panizzari scrive di essere stato trasferito in poco più di un anno “17 volte quasi sempre nelle carceri e case penali più infami del Paese; mi furono negati i colloqui con la mia convivente, mi furono ostacolati – quando non resi impossibili – i colloqui con gli avvocati. Presentai decine di esposti…fui ignorato. Le lotte in carcere imperversavano. Molti studenti, compagni operai, erano entrati in carcere, si fraternizzava e si parlava. Si discuteva di tutto, specie con quelli di Lotta Continua”.

E’ questo il momento in cui cambia la sua vita: “Se volevano prendersi la mia vita intera condannandomi all’ergastolo, io avrei preso la loro. Stavano nascendo i Nuclei Armati Proletari”. C’è spazio anche per l’episodio del sequestro di un agente della polizia penitenziaria nel manicomio di Aversa “col direttore che ci propose che ci avrebbe fatto risultare un cancro e uscire per malattia” se avessimo consegnato l’ostaggio. Panizzari venne poi condannato a due anni e otto  mesi con l’attenuante di avere agito per ‘motivi di valore morale e sociale’, cioè la volontà di denunciare le violenze nel manicomio . E per la storia della grazia ricevuta dall’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e poi revocata in seguito a un nuovo arresto per una rapina organizzata – questa la versione di Panizzari –   per pagare le cure alla compagna malata. Amara la conclusione di Stefanini che spiega “gli enormi cambiamenti nel sottobosco della malavita” con la “nuova generazione diventa egoista, che pensa al proprio orticello fregandosene di tutto ciò che la circonda; nella maggior parte dei casi escono ‘pentiti’ o collaboratori di giustizia, approfittando degli sconti di pena. Ben pochi pensano alle famiglie o a mantenere in carcere i coimputati che non hanno fatto la spia”.

(manuela d’alessandro)

Lo Stato contro il Bel René
questa volta è il Viminale a pagare

 

Questa volta il ‘cattivissimo’ René e la sua bella, Antonella, si prendono una piccola rivincita sullo Stato. Lui la mano non proprio leggera della giustizia l’ha conosciuta con gli ergastoli definitivi e la perdita della semilibertà in seguito al famoso episodio “cesoie e mutande” sgraffignati al supermercato. Lei un po’ di carcere se l’è fatto nel 2013, con 21 giorni di custodia cautelare al termine dei quali ha denunciato di essere stata colpita ingiustamente.

Portati davanti a un giudice civile, a Roma, dall’avvocatura generale che rappresentava niente meno che il ministero dell’Interno, hanno vinto loro. E ora il Viminale dovrà pagare anche le spese legali. Premessa: lo Stato dal 1978 cerca di farsi risarcire da Vallanzasca per la morte di Bruno Lucchesi, agente della stradale colpito a morte a Montecatini dopo l’evasione dal carcere di Spoleto del bandito della Comasina. Qualche decina di milioni di lire di allora si sono trasformati in un debito da 425mila euro che Renato non ha mai saldato. Qualche anno fa Vallanzasca cede i diritti per lo sfruttamento della sua avventurosa storia di sangue. Ne vengono fuori due libri e il film di Michele Placido “Gli angeli del male”. Inizialmente Vallanzasca firma una scrittura privata in cui si impegna a cedere i diritti a titolo gratuito, poi ne firma un’altra, insieme alla moglie Antonella D’agostino, che revoca le disposizioni precedenti. L’accordo vale 400mila euro. Nel 2009 i due danno conto per iscritto di averne già ricevuti 278mila dalla Cosmo Production. Ma chi incassa? Antonella. Tanto che rumors parlano di qualche dissapore tra marito e moglie. Oggi il ministero degli interni chiede al Tribunale di dichiarare che quel denaro appartiene di fatto a Vallanzasca, in modo da poterglielo pignorare per intero in virtù della sentenza Lucchesi. Vallanzasca non si costituisce in udienza. Lo fa invece, attraverso gli avvocati Ivana Anomali e Ciro Cofrancesco solamente Antonella. La quale dichiara che quei soldi sono frutto del suo lavoro alla sceneggiatura e che il bel René non c’entra un bel niente. E che, purtroppo, quel denaro l’ha comunque già interamente speso per mantenere l’anziana suocera (cosa non si fa per una suocera, del resto, ndr) e per le “esigenze del consorte”. Il giudice le dà ragione: non una lira andrà al ministero. Che anzi dovrà sborsare le spese legali. Fanno 5.800 euro, signor Viminale.