giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Se il giudice manda le mail in carcere al detenuto…

Si può affidare la libertà di un uomo a un clic? Si può dire a un detenuto che deve stare in carcere notificandogli il provvedimento via PEC (Posta Elettronica Certificata) alla casa circondariale?

L’avvocato Michele Monti chiede di annullare la revoca della sospensione condizionale della pena per il signor T. Y. perché, al contrario di quanto sostenuto dal giudice dell’esecuzione, il suo assistito non sarebbe stato “correttamente” avvisato della decisione.

Nel ricorso alla Cassazione, il legale sottolinea che “le notifiche all’imputato non possono eseguirsi a mezzo PEC” (la legge sembra molto chiara nell’escluderlo) e che “anche a voler concedere che un primo passaggio possa essere rappresentato da una notifica telematica dalla cancelleria del giudice alla casa circondariale le norme processuali, in caso di imputato detenuto, impongono la notifica mediante consegna di copia alla persona”.

Secondo il giudice invece “il rapporto di trasmissione telematica da cui risulta l’avvenuta consegna al sistema informatico della casa circondariale  carcere di Cremona  equivale alla consegna a mani del detenuto“. Ma non c’è prova che il signor T. Y. abbia ricevuto la notizia della fissazione dell’udienza camerale che gli avrebbe consentito di essere sentito dal magistrato di sorveglianza o di depositare delle memorie difensive. Anche perché, leggendo il verbale firmato dal cancelliere milanese, si deduce che nel giro di un secondo chi ha ricevuto la mail in carcere l’abbia stampata e consegnata di persona al detenuto. (manuela d’alessandro)

19 anni e milioni di euro dopo, l’aula bunker di Opera non è finita e fa ruggine

 

Quando iniziarono a progettarla, Michael Johnson bruciava ogni record alle Olimpiadi di Atlanta e Antonio Di Pietro decideva di entrare in politica. Correva l’anno 1996. A Milano, sull’onda lunga di ‘Tangentopoli’, si pensava in grande con la costruzione di un’aula bunker vicino al carcere di Opera dove celebrare i maxi processi. Diciannove anni, molti appalti, molti milioni in lire e in euro dopo, quel progetto è diventato un osceno prefabbricato in calcestruzzo a cui si sta cercando con molta fatica di ridare una dignità. La Procura Generale e la Corte d’Appello di Milano hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti e uno alla Procura della Repubblica per capire cosa sia successo.

Un gioiello tra i fontanili

Opera è un comune appena fuori Milano, famoso per il suo carcere, uno dei più vasti in Italia e quello col maggior numero di detenuti con l’arcigno regime del 41 bis. Il progetto elaborato dal Provveditorato lombardo alle Opere Pubbliche prevedeva di affiancare alla prigione, costruita negli anni ottanta, un edificio con un interrato riservato alle celle e due piani in grado di contenere due aule bunker e le camere di consiglio con bagni annessi.

L’area destinata all’iniziativa è la verde campagna attorno al centro abitato dove scorrono ameni fontanili, un dettaglio che, come vedremo, non verrà tenuto in giusto conto nel piano originario. La grandeur iniziale porta ad immaginare anche un parcheggio e una strada lunga circa 300 metri che consentano ad avvocati, magistrati, forze dell’ordine e pubblico di raggiungere il bunker. Il costo dell’intervento, compresi gli oneri di esproprio e urbanizzazione (marciapiedi, linea telefonica, reti di collegamento fognario), viene valutato in 12 miliardi e 644milioni di lire. Si parte a rilento con la prima pietra posata solo nel 1999 e si va avanti peggio. Sorgono problemi di varia natura con le imprese che si sono aggiudicate i lavori e nel 2002 viene stipulato un nuovo contratto di appalto. La Commissione di manutenzione della Corte d’Appello di Milano e il Provveditorato ritoccano il progetto, eliminando una delle due aule bunker previste per fare spazio a una zona archivio. Nel 2006  la direzione dei lavori comunica che entro un paio di mesi sarebbero stato completato il primo lotto ma esige un altro finanziamento di 5 milioni e mezzo di euro. L’epilogo dei lavori viene spostato all’inizio del 2010.

Scende la pioggia nel bunker    

Il Ministero della Giustizia sborsa la somma richiesta mettendola a a disposizione del Provveditorato che, a luglio 2011, annuncia un ulteriore ritardo nel completamento dell’opera. C’è un intoppo non da poco. I locali sottoterra si allagano a causa dell’innalzamento della falda freatica e una perizia accerta che i lavori non potranno essere completati prima del giugno 2012. Troppo ottimismo. Una delle due imprese impegnate nel cantiere va in liquidazione volontaria e le bizze della falda provocano infiltrazioni d’acqua dal tetto. Caos. Una seconda perizia dimostra che l’impermeabilizzazione del tetto eseguita a suo tempo non è più idonea. A novembre 2013 la società che sta portando avanti i lavori, una ditta veneta, stila un elenco delle opere ancora da realizzare e rassicura la Corte d’Appello che non ci sarà bisogno di nuovi finanziamenti. Previsione smentita perché sei mesi dopo sembra emergere la necessità di denaro fresco. Finalmente qualcuno nel Palazzo di Giustizia decide di interessarsi della vicenda. Nella primavera del 2014, alcuni magistrati effettuano un sopralluogo del cantiere. L’esito è drammatico: il cantiere appare abbandonato e le opere portate a termine sono in stato di degrado.

La promessa del Provveditore

“Io sono arrivato nell’aprile del 2012, questa cosa era già qua”. Pietro Baratono, responsabile delle Opere Pubbliche in Lombardia, ha l’aria sconfortata di chi si è  trovato sulla scrivania un dossier tremendo, ormai compromesso da troppi pasticci. “Questo appalto  – spiega – è nato male, ‘diviso‘ in due, con gare all’inizio solo per le strutture dell’opera e poi con altre gare per il resto. Quindi, senza una visione unitaria. Sicuramente ci sono delle responsabilità anche nostre, ma le diverse esigenze dell’ente usuario che si sono manifestate nel tempo non hanno aiutato”. A un certo punto i magistrati, sottolinea Baratono, “hanno chiesto anche di aggiungere gli alloggi per dormire in vista di possibili camere di consiglio che durino più giorni”. Ricapitolando: il progetto attuale prevede le celle nel seminterrato e ai due piani un’aula bunker, un archivio, due camere di consiglio con annesse otto stanzette per i magistrati qualora le riunioni per le sentenze dovessero protrarsi. “Ora i lavori dopo un periodo di sospensione per effettuare le perizie sono ripresi – garantisce Baratono – e per luglio 2015 ho promesso al Presidente della Corte d’Appello Canzio che sarà tutto pronto”.

Un cantiere desolato   

Lunedì mattina di inizio febbraio, sono le nove e mezzo. L’abbaiare furioso dei cani nel recinto del carcere accoglie il nostro avvicinamento al cantiere dell’aula bunker. Per arrivarci camminiamo per qualche minuto nell’erba resa fangosa dalle piogge degli ultimi giorni. Della strada vagheggiata nel progetto iniziale che dovrebbe permettere un facile accesso all’aula non c’è traccia. Ecco la nostra opera: la conosciamo che è già maggiorenne da un pezzo. Una colata cupa e senza grazia di calcestruzzo, il colore che ci si immagina per il più sordido dei luoghi di dolore. Non si vede nessun operaio al lavoro, né ci sono segni del passaggio recente di qualcuno. Cumuli di rifiuti, un tavolo arrugginito, due taniche per terra, solo una betoniera azzurra ravviva il paesaggio di per sé già non allegro ma intristito ancor più dalla costruzione che affianca il carcere.

Visita al labirinto

Proviamo a contattare telefonicamente e via mail l’impresa che segue i lavori da un paio d’anni, senza ricevere risposte. Torniamo al cantiere una radiosa mattina di marzo. Oggi si lavora. Ci intrufoliamo in quello che appare un enorme labirinto con scarsa logica nella divisione degli spazi, dove si sono affastellati gli interventi confusi di chi ci ha messo le mani in questi anni. La ditta che ci sta lavorando, grazie a un affidamento diretto, è animata da buoni propositi ma più di tanto non può fare (“Dieci anni fa un lavoro così non l’avrebbe preso nessuno, ma ora con la crisi…”, confessa una persona presente sul cantiere). L’aula destinata ai processi, il cuore del progetto, sembra quasi finita. C’è una stranezza, però. Il pubblico e i cronisti potranno assistere alle udienze da una specie di acquario sopraelevato con un separè di vetro che non renderà agevole capire cosa succede di sotto. Il grande archivio con tetto fatiscente è ancora vuoto, a breve dovrebbe partire la selezione tra le imprese che vorranno arredarlo. Sconvolgente la visione delle celle nella stanza sottoterra. I detenuti in attesa di giudizio saranno ammassati in pochi metri quadri, in una bolgia oscura  dentro gabbie arrugginite dal tempo a cui non basterà una mano di vernice bianca per tornare nuove, se non nell’apparenza. I quadri elettrici sono vecchi, ma ci viene assicurato che funzionano. L’umidità ha aggredito i muri, chissà cosa ne penserà l’Asl che dovrà valutare le condizioni igienico sanitarie. Quelle umane, se dovesse esaminarle la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, costerebbero all’Italia l’ennesima sentenza di condanna. Ai piani alti, ai quali si accede con una scala tortuosa, c’è ancora molto da fare per rendere presentabili le stanze per i giudici. Un signore ci spiega che dovrebbe anche essere costruito un parcheggio con un centinaio (!)  di posti auto, mentre il progetto della strada pedonale per dare un acceso autonomo al bunker è stato eliminato perché non è stata espropriata l’area dove ricavarla. Quindi per entrare non resta che passeggiare tra i campi oppure passare dal carcere.

Serve davvero quest’opera? 

Quando Michael Johnson era l’uomo più veloce del mondo, a Milano si celebravano molti maxi processi, oggi quasi nessuno; gli archivi erano pieni di carta, adesso si cerca di digitalizzare qualsiasi cosa.  L’Italia era un paese ancora florido, con tanti soldi da mettere a disposizione della giustizia. Oggi è  utile finire quest’opera? Sull’archivio a Palazzo c’è chi dice che servirebbe, chi no. Di certo i costi di manutenzione per celle, aula bunker, alloggi per i giudici sarebbero esorbitanti e forse non sostenibili coi pochi denari assicurati alla giustizia. Si potrebbe ripensare alla funzione di questo edificio, utilizzandolo solo come archivio o per attività meno dispendiose. L’inchiesta della Procura di Milano non potrà portare a nulla perché eventuali reati sarebbero già prescritti, resta invece aperta aperta la possibilità per la Corte dei Conti di valutare i danni alla collettività e gli eventuali responsabili. In ogni caso, il giorno che tutto sarà finito qualcuno dovrà scusarsi per questi 19, incredibili anni. (manuela d’alessandro)

 

NoTav, gup: Non sono terroristi, ma stiano in galera uguale

“Con il loro comportamento processuale non hanno dato segni di resipiscenza” scrive il gup di Torino per negare gli arresti domiciliari a 3 militanti NoTav accusati dell’azione al cantiere di Chiomonte del 14 maggio del 2013 per i quali era caduta davanti al Riesame l’accusa di aver agito con finalità di terrorismo.

Francesco Sala, Lucio Alberti e Francesco Mazzarelli restano in carcere, e in regime di alta sorveglianza nonostante il “taglio” dell’imputazione più grave, per resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento e porto di armi da guerra (le molotov).

Per il gup non è possibile sovrapporre a livello di materiale probatorio il procedimento a carico dei 3 con quello connesso a carico dei 4 militanti Notav assolti  a dicembre dall’accusa di terrorismo, condannati a 3 anni e 6 mesi per i reati comuni e messi agli arresti domiciliari.

Sala, Mazzarelli e Alberti arriveranno da detenuti al processo con rito abbreviato del 23 aprile. Il gup ha deciso di non tenere conto né della sentenza della corte d’assise né del Riesame che anche per i 3 aveva escluso il terrorismo. Il giudice si è adeguato alla propaganda dell’accusa che per bocca del pg Maddalena anche in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario aveva criticato la corte d’assise che avrebbe “sottovalutato” il fenomeno della violenza politica.

Non si spiega, o per altro verso si spiega benissimo, perché Sala, Mazzarelli e Alberti restano detenuti in un regime di 41bis di fatto nel carcere di Ferrara pur non essendo più formalmente imputati di terrorismo. “Nessuna resipiscenza” dice il gup, tralasciando il fatto che la sede per eventuali dichiarazioni è quella del giudizio abbreviato il 23 aprile. Come del resto fecero nel processo connesso i 4 coimputati davanti all’assise spiegando le motivazioni dell’azione di Chiomonte ammettendo la loro partecipazione (frank cimini)

Yara, un processo sui media…sorella di Bossetti picchiata 3 volte

E’ la terza volta che la picchiano e stavolta l’hanno mandata in ospedale con trauma cranico e fratture varie con una prognosi di 30 giorni. Lei è Laura Letizia Bossetti, sorella dell’uomo in carcere con l’accusa di aver ucciso Yara Gambirasio. Il 10 febbraio corso le avevano anche messo a soqquadro la casa, adesso invece l’hanno di nuovo pestata. Si parla di due uomini incappucciati.

E soprattutto a questo punto non si può non ricordare il clima non certo meteorologico e il contesto in cui si sta svolgendo l’inchiesta. Non passa giorno che sui media finiscano elementi di indagine nell’esclusiva disponibilità dell’accusa, procura di Bergamo e polizia giudiziaria, che aggraverebbero la posizione dell’unico indagato il quale dalla sua cella continua a proclamarsi innocente.

Mai come in questo caso non è un problema di merito ma di metodo. Sarà un processo ad accertare le presunte responsabilità del signor Bossetti. Ma di questo passo non potranno non influire sulla decisione dei giudici le fughe di notizie che tendono mediaticamente a convincere l’opinione pubblica che l’indagato è colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”.

I particolari dell’inchiesta non sono a disposizione della difesa che apprende delle continue novità dai media, ovviamente senza poter interloquire sul punto perché l’inchiesta non è ancora chiusa. In questa situazione agiscono persone magari affette da disturbi mentali o da semplice imbecillità che vanno a prendersela con la sorella dell’indagato dopo aver respirato il clamore mediatico innescato da chi, pm o polizia giudiziaria, dovrebbe tutelare il segreto istruttorio.

E invece gli inquirenti fanno l’esatto contrario. Forse sarebbe il caso di sanzionare con procedimento disciplinare davanti al Csm il pm titolare dell’inchiesta tutte le volte che finiscono sui giornali atti e documenti non ancora depositati e che solo l’accusa conosce. Ci dovrebbe pensare la politica abituata però a  protestare solo quando i danni riguardano un suo esponente o un potente. Bossetti è un cittadino qualsiasi, con un quadro indiziario sicuramente pesante, che ha diritto di difendersi. E il diritto di difesa è fortemente limitato dall’accusa che usa i giornali per “vincere” il processo in anticipo (frank cimini)

Giudici: dai NoTav nessuna minaccia grave allo Stato

Dai NoTav non ci fu nessuna minaccia grave allo Stato. Lo scrivono i giudici della corte d’assise di Torino nelle motivazioni della sentenza che a dicembre scorso aveva assolto 4 militanti dall’accusa di aver agito con finalità di terrorismo.

“Pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico che derivano da inaccettabili manifestazioni non si può non riconoscere che in Val di Susa non si vive una situazione di allarme da parte della popolazione e che nessuna delle manifestazioni violente ha inciso sugli organismi statali che devono realizzare l’opera” scrivono i giudici. Al centro del processo c’era l’azione contro il cantiere di Chiomonte del 14 maggio 2013 per la quale i 4 imputati, assolti dall’accusa più grave, furono condannati a 3 anni e 6 mesi soprattutto per l’uso di armi da guerra (molotov).

“Appare incontrovertibile – secondo la corte – la mancanza di volontà di attentare alla vita delle persone che lavoravano nel cantiere”. I 4 imputati si trovano agli arresti domiciliari da dicembre dopo un anno di carcere proprio per effetto della sentenza della corte.

Altri 3 militanti NoTav invece sono ancora in carcere nonostante sia caduta al riesame anche per loro l’accusa di aver agito con finalità di terrorismo. Oggi, nel giorno in cui sono state rese le motivazioni  della sentenza della corte, l’avvocato Eugenio Losco ha depositato istanza di arresti domiciliari per i 3 imputati detenuti in regime di alta sorveglianza e che saranno processati con rito abbreviato il prossimo 23 aprile. L’avvocato chiede di sostituire il carcere con la detenzione in casa perchè le esigenze cautelari si sono sicuramente attenuate dal momento che non c’è più l’imputazione di terrorismo.

Il gip deciderà nei prossimi giorni se tenere in conto la sentenza della corte d’assise ora pure motivata oppure se supportare la procura di Torino che con il teorema Caselli ha radicalizzato lo scontro sul treno ad alta velocità oltre ogni misura forzando la mano in senso emergenziale (frank cimini)