giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Il QR sulla porta, l’ultima frontiera per prendere appuntamento col magistrato

Uno dei problemi che più incidono sulla salute mentale degli avvocati, oggetto di frustrazioni e lamentele, sono le ore di attese davanti alle porte dei pubblici ministeri per essere ricevuti e ottenere un colloquio.

Se un tempo, ricordano i veterani, c’erano rapporti di confidenza e confronto assidui tra legali e magistrati, adesso è diventato  più difficile avere la possibilità di un confronto che una sentenza di assoluzione. Qui ci piace ricordare l’affabile all’epoca (primi anni 2000) procuratore Corrado Carnevali che, una volta alla settimana, riceveva un uomo che gli raccontava del suo amore platonico per una nota cantante. Con pazienza, simpatia e rispetto ascoltava una persona che manifestava evidentemente delle fragilità.

Ed ecco che arriva, inaspettata, epifanica, una soluzione che ha le fattezze bianche e nere di un QR code, il codice a barre che apre ad altre dimensioni. Sulla porta di una magistrata al quarto piano, è apparso un foglio di carta con un ‘languido’ invito: “Scan me” e a fianco la spiegazione. “Fotografando con il cellulare l’immagine a fianco sarà possibile accedere alla pagina per gli appuntamenti. La disponibilità sarà comunicata mensilmente”.

Proviamo a cliccare il link ed ecco spalancarsi un mondo di appuntamenti con addirittura due alternative: “(Telefonico) Appuntamento 15 minuti” con indicazione del numero da comporre e (In presenza) Appuntamento 15 minuti presso la Procura”. Sotto appare il calendario da compulsare per selezionare date e orari disponibili. Con quale frequenza, non tocca a noi scoprirlo.  (manuela d’alessandro)

Un pomeriggio d’agosto nel tribunale, caccia al pm di turno nel deserto

Bella la giustizia a Milano, ad agosto. Ci vado sempre in vacanza.

Ieratica come i grattacieli in costruzione che svettano lucidi e snelli dalle finestre ai piani alti del palazzo, l’emblema del dèmone di questa città inseguito dalla Procura.

Tutto azzurro oggi, vista panoramica che nemmeno in costiera e in più la pace dei sensi. What else?

Cinque del pomeriggio: l’ora delle rese dei conti. Non qui, non ora.

“Andiamo dal pubblico di ministero di turno a vedere se succede qualcosa a Milano” si motivano due cronisti habitué del tribunale che cercano sul sito della Camera Penale e annotano il nome del pubblico ministero a cui spettano gli affari urgenti di giornata.

 

Non sia mai, in fondo il Watergate nacque da un’incursione di Bob Woodward e Carl Bernstein alla direttissime.Ma torniamo ai duri marmi del palazzo. Il pm è un nome mai sentito, sarà appena arrivato.

Parte una caccia che di piano in piano si fa sempre più allucinata. L’umidità  amazzonica aiuta a trasecolare. Consultiamo i fogli con l’elenco dei nomi e dei numeri delle stanze. Il pm D. non è indicato.

Transitiamo a fianco di cumuli di sedie e vecchi condizionatori accatastati.

Tutto inanimato, se non fosse che le persone che si occupano delle pulizie stanno bagnando il pavimento potremmo essere nel deserto.

Disturbiamo uno di loro per chiedere se sappiano dove stia il nostro magistrato. Negativo.  Chiediamo a  a un uomo che cammina nei paraggi, potrebbe essere un  cancelliere. Elegante.“Sa dove si trova D.?”. Il cenno negativo del capo è la risposta.

Troviamo un pubblico ministero al lavoro dopo avere bussato invano in altre stanze. Chiacchiere di rito e la domanda: “Sa dov’è la stanza di D.?”. Risponde che forse l’ha visto in una riunione ma non sa dove sia. Saliamo, inerpicandoci negli strettti ‘vicoli’ della Direzione distrettuale antimafia. Passiano accanto a una fotocopiatrice che ha un sussulto e ce lo abbiamo pure noi, naufraghi straniti in mezzo a un mare di calda ovatta.

Ecco una persona, un dipendente di un ufficio. “Dov’è D.?”.  Risponde, un po’ accigliato. “Dovete chiedere in centrale penale ma alle 17 di venerdì dubito che troviate qualcuno…”.

Riscendiamo al quarto. C’è vita in un ufficio, due impiegati della giustizia si danno da fare dietro a malloppi di fascicoli. “Cercavamo D., siamo due giornalisti”. “Sì, vi conosco. Perché lo cercate?”. “Per sapere se durante il turno ci siano stati dei fatti rilevanti…”.

Prende il telefono e chiama D. Rasserenati dalla sua esistenza, ascoltiamo la telefonata dalla quale il nostro gentilissimo interlocutore apprende dal magistrato che no, non ci sono notizie. Ma, per curiosità, insistiamo con una tigna effettivamente degna di miglior causa, dove ha la stanza il pm D.?. Lui sorride, quasi intenerito. Dai, ci siamo, pensiamo: ora ce lo dirà! E invece: “Ve lo dico lunedì”.

Buon week end, giustizia.

(Manuela D’Alessandro)

‘Morire di Stato’, il libro che racconta le storie di di 365 “vittime dell’Italia Repubblicana”

Gianpaolo Demartis, Elton Bani. Sono i due uomini che hanno perso la vita per strada a un giorno di distanza,  dopo essere stati colpiti dai dardi dei taser usati dai carabinieri. Si allunga, con loro, l’interminabile elenco dei morti di Stato. Ma quante sono le persone cadute durante un corteo, in una caserma, in operazioni di servizio di forze di polizia? Come si chiamavano? Che storie e che responsabilità stanno dietro decine di croci piantate nei nostri cimiteri?   Il collettivo Cronache ribelli prova a rispondere. Cerca di rompere quello che definisce il  «tabù della violenza di Stato». E va oltre una manciata di nomi e cognomi non ancora evaporati dalla memoria collettiva, Giuseppe Pinelli,  Luca Rossi, Roberto Franceschi, Giannino Zibecchi, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Carlo Giuliani.

Lo strumento è il libro Morire di Stato, che ricostruisce e condivide le storie  sbagliate e le brevi esistenze di «365 vittime dell’Italia repubblicana»,  una al giorno, una parte di quelle contate tra il 1946 e il 2024.

Enrico  Costantini, Giuseppe Grossetti e Adolfo Scurti aprono la pubblicazione. Restarono a terra, a Roma, durante gli scontri scoppiati il 9 ottobre 1946 al termine di una manifestazione operaia. Chiude l’elenco parziale Ramy Elgaml, il ragazzo in sella allo scooter in fuga  guidato da un amico, braccato dai carabinieri e finito contro un palo al Corvetto di Milano, il 24 novembre 2024. Tra loro, a decine, disoccupati, lavoratori, migranti, studenti, disoccupati, contestatori, malati psichiatrici e qualche donna (Giorgiana Masi, al esempio), tifosi (come Gabriele Sandri), un militare (il parà Emanuele Scieri), i “soliti sospetti”. Spacciatori, anche. E poi rapinatori, pregiudicati, detenuti, minorenni.

Molti nomi, scorrendo l’indice, non dicono nulla prima della lettura delle schede cui i numeri di pagina rimandano, corredate da citazioni delle fonti. Altri evocano volti, indagini azzoppate, familiari in lotta per avere giustizia, aspettative deluse, polemiche.

C’è un filo comune, un collante dichiarato. La scelta di raccogliere in un solo volume casi così differenti, e spesso consegnati all’oblio, nasce da una volontà precisa. «Respingere con forza l’idea che esistano vittime di serie a e vittime di serie b, che si possano distinguere i morti tra chi merita giustizia e chi no, la divisione tra chi è degno di pietà e chi è ritenuto colpevole della propria fine».  Così nel libro vengono dettagliate «storie che è sempre più importante portare a galla e diffondere», perché «viviamo in un Paese dove ciclicamente la repressione torna a essere la risposta dello Stato al dissenso, alla marginalità, alla mancanza di servizi, alla crisi economica, alla malattia mentale, alle scelte di vita non conformi».  La controprova più recente sarebbe il decreto sicurezza, la conferma è che la conta dei morti è proseguita dopo la pubblicazione del volume.

Le analisi degli autori sono nette e a tratti urticanti, le argomentazioni destinate a far discutere e a innescare reazioni di segno opposto. «Per noi – rimarcano – nessun crimine giustifica la pena capitale.  Non solo. Nessuno dei comportamenti assunti dai protagonisti dell’almanacco in un contesto autenticamente democratico, dovrebbe avere come conseguenza la morte». E, ancora, riferendosi a chi viene associato in negativo a tutte queste vite a perdere: «Non si tratta  solo di condannare l’operato dei rappresentanti dello Stato, le azione di singoli individui. Il problema è più profondo. Il problema sta nelle leggi che autorizzano l’uso sproporzionato della forza, nelle prassi che trasformano l’intervento sanitario in operazioni di polizia, nei regolamenti e nelle legislazioni che tollerano la detenzione arbitraria, la tortura psicologica, l’umiliazione sistematica».

Morire di Stato, pagine 182, 17,00 euro, in vendita anche on line

Lorenza Pleuteri, giornalista indipendente, collaboratrice di Osservatoriodiritti.it

Dalle scopate del Cav a quelle del figlio di La Russa

I colleghi della giudiziaria da un bel po’ lamentano di avere poco da scrivere. Un importante pm chiosa: “Qui ormai ci sono solo reati sessuali, il tempo dei colletti bianchi è finito”. Volendo fare un battuta che suona anche come osservazione critica si può dire che nel tempio che fu di Mani pulite i pm sono passati dalle scopate di Silvio Berlusconi a quelle del figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa.

O meglio al revenge porn di Leonardo Apache La Russa perché l’accusa di violenza sessuale dovrebbe essere archivista secondo la procura. La richiesta sembra ben argomentata e con ogni probabilità sarà accolta in autunno dal giudice per le indagini preliminari. Ma l’inchiesta su Apache resta un segno dei tempi magri a livello cronachistico. Insomma Milano e il suo palazzacciò non sono più caput mundi.

In verità non manca qualche inchiesta importante. Ma per esempio quella sugli abusi edilizi, con grattacieli che nascono dalla ristrutturazione di cortili non è ben vista (eufemismo) dagli editori dei giornali che sono pur sempre dei padroni e da quasi tutti i partiti. La maggior parte della politica è a favore della famosa legge “salva Milano” nel frattempo arenata in Senato e che in parole povere sarebbe un vero e proprio colpo di spugna, una sorta di insabbiamento.

Per cui se ne parla il meno possibile degli abusi e dei danni ai diritti dei cittadini ai quali viene sottratto spazio e aria in nome della necessità di favorire lo  sviluppo. Va detto che questa inchiesta quando la procura era in mano a Magistratura Democratica  non sarebbe stata possibile. Gli abusi edilizi in grande stile c’erano già ma non si poteva disturbare la giunta di centrosinistra. La moratoria delle indagini su Expo sta lì a dimostrarlo.
Milano ha perso per ora il primato del circo mediatico giudiziario. In pole position c’è la procura di Pavia con l’indagine bis su Garlasco che monopolizza l’attenzione generale tra prime pagine di giornali e tg passando per i talk show dove personaggi improbabili ne raccontano di tutti i colori. E parliamo di un’indagine dove almeno per adesso non è emerso nulla che possa portare a chiedere la celebrazione di un nuovo processo. In compenso però ci sono un sacco di laureati in Garlascologia una facoltà destinata forse a trovare una soluzione al problema della disoccupazione intellettuale.

(frank cimini)

Più armi nel Pil meno welfare indagini su anarchici a gogo

In poche ore arrestato a Roma Massimiliano Mori che gestiva due blog di idee e pratiche anarchiche compresa la pubblicazione di motivazioni di attentati per lo più dimostrativi per una accusa di istigazione a delinquere che in casi del genere non regge alla prova dei dibattimenti. La procura di Bologna ordina 15 perquisizioni in riferimento a fatti dell’aprile 2023. Due auto della polizia incendiate a Rimini, associazione sovversiva finalizzata al terrorismo. Il periodo incriminato è quello delle manifestazioni di solidarietà per Alfredo Cospito. Il pm che firma i provvedimenti è Stefano Dambruoso ex star del contrasto al fondamentalismo islamico che lo fece balzare sulla copertina di Time come il cacciatore numero al mondo di Bin Laden.

Da tempo Dambruoso si è specializzato sul fronte anarchico con risultati  molto scarsi, inchieste flop che manco arrivano in aula. Della campagna di solidarietà con Cospito faceva parte anche il corteo dell’11 febbraio 2023 che nei giorni scorsi ha portato a Milano a condanne fino a 4 anni e 7 mesi. Dopo una requisitoria show in cui i pm accusvano i manifestanti di essere vestiti “in modo aggressivo”.

Il contesto di queste notizie giudiziarie è quello in cui il governo italiano aderisce a Trump firmando la promessa di spendere per acquisto di armi il 5 per cento del Pil. Togliendo soldi a welfare e servizi nonostante la Sora Meloni affermi che non sarà cosi. Non è difficile ipotizzare in questa situazione un incremento almeno piccolo del conflitto sociale. Sul punto è stata già affidata la delega al decreto sicurezza. Piu galera per chi protesta nelle piazze. E per chi lo farà da già carcerato. Tutto si tiene.

Chi comanda sembra avere nostalgia degli anni ‘70. L’infinita emergenza italiana dopo mezzo secolo non conosce limiti. Neppure in un quadro di repressione senza sovversione come quello attuale. Diciamo che siamo a inchieste giudiziarie “esplorative”, a intimidazioni e avvertimenti. Quel poco che si muove o ha intenzione di farlo sarà ucciso nella culla. E si parla esplicitamente  di modificare la già flebile normativa sulla tortura perché la polizia deve poter lavorare senza lacci e laccinoli. Senza dover sopportare iscrizioni del registro degli indagati. Mentre i sindacati di polizia premono affinché sia creato il reato di “terrorismo di piazza”. Affinché quello di Stato possa dispiegarsi liberamente.

(frank cimini)