giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Giulia Ligresti, innocente dopo 6 anni da colpevole

Ci sono casi  in cui la fallibilità della giustizia diventa eclatante. Per  6 anni Giulia Ligresti, figlia del costruttore Salvatore, è stata colpevole con sentenza definitiva, quella con cui un giudice di Torino ha accolto la sua richiesta di patteggiare 2 anni e otto mesi nell’ambito del crac di Fonsai, la compagnia assicurativa di famiglia. Ora la corte d’appello di Milano ha revocato quel verdetto, cancellandolo, perché il 29 ottobre scorso Paolo Ligresti, suo fratello, è stato assolto per gli stessi fatti dalla Cassazione. Un innocente e una colpevole per le stesse accuse non possono essere tollerati nel nostro ordinamento e ai magistrati non è restato che prenderne atto restituendo a Giulia una fedina penale cristallina.

Non è l’unica assurdità in  questo storia perché il 19 ottobre, dieci giorni prima dell’epilogo favorevole a suo fratello, Giulia era finita in carcere diversi anni  dopo la sentenza per quella prassi dei tribunali di Sorveglianza a metterci secoli a fissare le udienze. Nonostante potesse in teoria avere accesse a misure alternative alla detenzione, il giudice di Torino aveva respinto l’istanza di messa alla prova presentata dai suoi legali, Gian Luigi Tizzoni e Davide Sangiorgio. Un mese dopo, appurato il contrasto della sua sentenza con quella favorevole a Paolo, aveva potuto lasciare San Vittore.

“La sentenza di Milano – commentano i suoi avvocati – restituisce piena dignità a Giulia Ligresti, bersaglio di un’ingiusta carcerazione e ristabilisce la verità su un’operazione finanziaria la cui reale storia inizia finalmente a essere scritta. Non ci fu nessun crac e nessuna responsabilità da parte della famiglia”.  Giulia era stata arrestata insieme alla sorella Jonella e al padre il 17 luglio 2013 con l’accusa di aggiotaggio e falso in bilancio. In seguito a una perizia medica, che aveva accertato la sua profonda prostrazione psicologica, aveva lasciato il carcere un mese dopo. Ora potrà chiedere un risarcimento per ingiusta detenzione anche se lei, nel giorno della vittoria, preferisce non infierire: “Ho sempre avuto fiducia nella giustizia senza smettere di lottare, nemmeno quando sono finita in carcere da innocente”. (manuela d’alessandro)

“La regola del lupo”, il giallo lacustre sull’amicizia firmato da Vanni

Manca l’aria nella ‘Regola del lupo’.

Anche se sulla superficie del lago di Como luccicano le promesse della primavera, Franco Vanni, che la canna da pesca la sa impugnare bene come una penna, preferisce mettere la testa sotto l’acqua mansueta del Lario, nel punto in cui risplende il borgo di Pescallo. Quale prospettiva migliore, dall’abisso dello specchio dolce più profondo d’Italia, per scrutare il glicine appena fiorito farsi lugubre testimone all’alba di un colpo di pistola, dell’urlo di un uomo (“Lo sapevo!”) e infine di un secondo colpo.

“Il corpo di Filippo Corti era accasciato sul gommoncino, riverso a pancia in sotto. Le gambe ingombravano quasi per intero il canotto. Le braccia pendevano in acqua oltre il tubolare della prua”

E’ claustrofobica la barca a vela di Filippo Corti che tutti in paese chiamano il Filippino in dileggio al mestiere della madre, venuto da Milano a festeggiare il suo quarantesimo compleanno assieme ad Andrea Castiglioni, ex migliore amico e figlio dell’imprenditore Rocco, all’avvocato Marco Michelini, origini proletaria ed intelligenza viva e all’ereditiera Priscilla Odescalchi, una bellezza appena increspata dagli anni della loro giovinezza, passata tra feste con gli struzzi e impennate verso un futuro raggiante. 

“Il Filippino era un grandissimo figlio di puttana”, riferiscono compatti i tre amici a Salvatore Cinà detto ‘il Lupo’, il vecchio maresciallo dei carabinieri  all’ultima curva della sua vita in divisa, e all’istrionico pubblico ministero Ciro Capasso, un whisky sempre in mano per arrotondare le sue tesi investigative.

L’aria scarseggia anche tra le pagine: la scrittura fitta riempie ogni bolla, con la prepotenza  di chi ti lascia giusto un sospiro quando giri foglio.  Il furore di Vanni concentra quasi tutto in un pugno di ore, con gli interrogatori dei tre possibili colpevoli incastonati nello sguardo paziente del lago che restituiscono anche virtù e maledizioni del Filippino. Il languore delle acque, appena accese dalla stagione del glicine, rende sensuale la narrazione, esaltando le sottigliezze nei rapporti tra i protagonisti. “La regola del lupo’ diventa così anche un raffinato atlante  sentimentale sull’amicizia .

In questo scrigno chiuso, si muove però un personaggio  che con la sua freschezza fa entrare vento da tutte le finestre del romanzo. E’ Steno Molteni, 27enne cronista del settimanale ‘La Notte’ che, come nel ‘Caso Kellan’, opera precedente dell’autore, conduce un’indagine parallela a quella istituzionale. Vive sempre all’hotel Garibaldi, dove paga il vitto al signor Barzini preparando cocktail alla sera, gira su una vecchia Maserati Ghibli, con autista un amico senzatetto e tergiversa con la sexy fotografa Sabine.

Dalle sue interviste nei palazzi storici della Milano perbene, da alcuni oggetti risaliti dal fondo dove l’autore si rannicchia e da un cardellino arriveranno le folate investigative che consentiranno al ‘lupo’ Cinà di chiudere il caso per lasciare il suo ufficio e correre nell’aria profumata di glicine con la bicicletta elettrica, regalo della pensione.

“Nella caccia di un lupo esiste qualcosa di più della semplice uccisione”.

“La regola del lupo” di Franco Vanni, ed. Baldini + Castoldi, 288 pagg, è in vendita anche alla libreria Accademia, corso di Porta Vittoria 14.   

Scientology sconfitta, la stampa può investigare nella Chiesa

Il giudice civile di Milano Nicola Di Plotti ha rigettato la richiesta di risarcimento di 80mila euro presentata dalla Chiesa Scientology di Milano nei confronti dei due cronisti Andrea Sceresini e Giuseppe Borello, autori di un documentario sulla Chiesa vincitore del Dig Awards nel 2016 e poi tramesso dal programma ‘Report’.

Borello, con l’obbiettivo di registrare attraverso audio e immagini un’inchiesta sotto copertura, si era professato fedele e aveva utilizzato un falso nome per entrare a far parte della comunità di viale Fulvio Testi diventando membro dello staff per carpire informazioni agli adepti.
Per il giudice non è stata commessa nessuna violazione di domicilio perché “la sede di Scientology non può essere qualificata come un luogo di privata dimora, trattandosi di un luogo aperto al pubblico”. “In quanto luogo di culto – argomenta – è accessibile a una pluralità di soggetti anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto; l’attività ivi svolta avviene a contatto con un numero indeterminato di persone e, talvolta, in rapporto con gli stessi: in questo senso è fuori luogo parlare di riservatezza o di necessità di tutela della sfera privata del soggetto giuridico”. Borello e Sceresini, difesi dall’avvocato Cesare Del Moro, non sono inoltre responsabili per l’illecita captazione e per la divulgazione delle immagini che ritraevano i fedeli nello svolgimento dei loro rituali e sono state inserite nel documentario ‘The organization’. Questo perché “il Codice della Privacy trova applicazione unicamente nei confronti delle persone fisiche e quindi Scientology non aveva titolarità a chiedere il risarcimento”. Scientology di Milano è stata condannata a pagare oltre 13mila euro di spese processuali.

La vicenda ha anche in corso un risvolto penale. La Procura di Milano sta svolgendo un’indagine che verrà chiusa nelle prossime settimane  sulla presunta diffamazione  attraverso il blog ‘pennivendoli.com’ (ancora online) ai danni dei due giornalisti, assistiti dall’avvocato Marco Tullio Giordano. Al vaglio degli inquirenti anche le chiamate provenienti da un telefono con una sim card riconducibile a un defunto capo dell’organizzazione. (manuela d’alessandro)

NoExpo, prosciolti 5 anarchici greci
perché già condannati ad Atene

Il Tribunale di Milano, decima sezione penale, ha prosciolto cinque anarchici greci accusati di devastazione e saccheggio in relazione agli scontri avvenuti il primo maggio del 2015 in occasione dell’inaugurazione di Expo. “Non luogo a procedere”. La ragione è molto semplice: erano già stati processati e condannati in patria a 2 anni e 5 mesi per gli stessi fatti, qualificati però giuridicamente con imputazioni meno gravi perché nel loro Paese non esiste il reato di devastazione e saccheggio. Le condanne di Atene erano infatti per resistenza aggravata.

Il reato di devastazione e saccheggio in Italia prevede condanne comprese tra 8 e 15 anni di reclusione, come soltanto in Albania e in Russia. Le accuse erano già state messe in discussione dalla Corte d’appello di Atene quando aveva rigettato la richiesta di estradizione inoltrata dai giudici di Milano. I magistrati greci avevano affermato che non esiste la responsabilità collettiva ma soltanto quella personale e che non c’erano elementi sufficienti di accusa per arrestare gli imputati e rimandarli in Italia. Successivamente, sulla base degli atti italiani, i cinque anarchici erano stati processati in Grecia e la sentenza di condanna era diventata definitiva anche perché i legali della difesa avevano rinunciato al ricorso in Appello promosso originariamente.

Il Tribunale ha applicato il principio del “ne bis in idem” su parere conforme della Procura. Per un sesto imputato, cittadino italiano, Massimiliano Re Cecconi, gli atti tornano ora, per decisione dei giudici, ai pm di Milano, che dovranno riscrivere l’atto di conclusione delle indagini, riformulare eventualmente la richiesta di rinvio a giudizio e andare in udienza preliminare. Il Tribunale ha accolto l’eccezione dei difensori, gli avvocati Mauro Straini ed Eugenio Losco, sulla dichiarazione di irreperibilità di Re Cecconi dal momento che, in base alle dichiarazioni dei genitori, il giovane risiedeva tranquillamente a Tolosa, dove frequentava una scuola di musica e dove venne arrestato ed estradato in Italia.

Finora la Procura di Milano non è riuscita a ottenere nessuna condanna per devastazione e saccheggio in relazione ai fatti del primo maggio. Ci sono state solo condanne per reati minori. In relazione agli anarchici greci i pm sono stati costretti a fare una sorta di buon viso a cattivo gioco perché i giochi erano già stati fatti ad Atene. L’accusa per adesso registra una sconfitta su tutta la linea ma in materia di antagonismo sociale e politico ritiene di avere altre carte da giocare. Per esempio dal prossimo 2 aprile, quando saranno processati, per associazione per delinquere, i militanti del collettivo per la casa del Giambellino, nonostante che, per ammissione degli stessi pm, gli imputati in relazione alle occupazioni non abbiano guadagnato un euro. Si tratta di un racket molto presunto e di un processo istruito in linea con il clima politico che si respira nel Paese, dove le lotte sociali, come accade nel settore della logistica e per la questione del Tav, vengono represse con un accanimento degno di miglior causa (frank cimini)

Moro, il libro di Bianconi spiega che “erano comunisti contro comunisti”

“Nel disorientamento generale la congettura su imprecisati collegamenti con servizi segreti stranieri, dell’est e dell’ovest, nel pese già afflitto da stragi misteriose trame occulte e deviazioni istituzionali, può perfino suonare più rassicurante rispetto all’azione proditoria di una organizzazione rivoluzionaria nostrana”. Sono sei righe secche con cui Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, spiega e contrasta la dietrologia che sul caso Moro dura dal giorno dell’agguato 16 marzo 1978 e non accenna a diminuire, nonostante non abbia mai trovato il minimo riscontro.

Come mai ha trovato riscontro un’altra congettura dei legami con i  servizi segreti del leader delle Brigate Rosse Mario Moretti, il quale tra l’altro è detenuto in regime di semilibertà dal giugno del 1981 e tale circostanza dovrebbe bastare e avanzare da sola a spazzare qualsiasi dubbio in una situazione normale in un paese normale che evidentemente non è il nostro.

Il libro di Bianconi ricostruisce quello che accadde nei 55 giorni tra i palazzi delle istituzioni e l’appartamento dove venne tenuto il presidente della Democrazia Cristiana. Punta l’attenzione sul partito della fermezza sul no a qualsiasi trattativa dove la parte del leone la fece il Partito comunista italiano che per lungo tempo dirà che le Br erano “sedicenti rosse” e il segretario Enrico Berlinguer parlerà di “metodi nazi-fascisti”. Il partito temeva la concorrenza del partito armato dentro il movimento operaio.

Del partito armato Aldo Moro prima di essere rapito aveva parlato a più riprese sia in pubblico sia in privato con i suoi figli che riferiscono: “Il concetto di partito armato per lui significava una forza reale nella vita del paese una forza incidente che aveva obiettivi determinati e che non si poteva in alcun modo sottovalutare e soprattutto era e diventava per questo un problema politico e non più strettamente un problema di polizia di ordine pubblico, giudiziario”.

Purtroppo per Moro, eccezion fatta per un gruppo di fedelissimi che si diedero da fare per salvargli la vita, la classe politica con il fronte della fermezza non solo fu di tutt’altra opinione, ma sostenne che il presidente della Dc “non era lui” nelle lettere dalla prigionia. Insomma Moro fu isolato. Lui invocava la ragion di stato per tornare a casa, ricordando che in altri paesi in casi analoghi c’era stata trattativa. La politica invece interpretava la ragion di stato nel modo esattamente opposto.

La moglie Eleonora Moro dirà : “Siamo prigionieri” con riferimento al palazzo che non ascoltava le parole accorate dei familiari.

Quello di Bianconi è uno dei pochi libri schierati contro la dietrologia alla quale hanno dato spazio anche le commissioni parlamentari, soprattutto quella della scorsa legislatura presieduta da Giuseppe Fioroni e animata da diversi esponenti del partito erede del Pci. Chi scrive queste poche righe per dare atto a Bianconi di aver fatto un lavoro onesto di ricostruzione è convinto che la maggior parte della dietrologia sul caso Moro nasca proprio da una circostanza unica. Moro fu rapito da un gruppo di comunisti mentre altri comunisti erano in maggioranza di governo. E dopo oltre 40 anni non se ne viene fuori (frank cimini)

“16 marzo 1978″ di Giovanni Bianconi. 223 pagine, Editori Laterza