giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

Moro, il libro di Bianconi spiega che “erano comunisti contro comunisti”

“Nel disorientamento generale la congettura su imprecisati collegamenti con servizi segreti stranieri, dell’est e dell’ovest, nel pese già afflitto da stragi misteriose trame occulte e deviazioni istituzionali, può perfino suonare più rassicurante rispetto all’azione proditoria di una organizzazione rivoluzionaria nostrana”. Sono sei righe secche con cui Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, spiega e contrasta la dietrologia che sul caso Moro dura dal giorno dell’agguato 16 marzo 1978 e non accenna a diminuire, nonostante non abbia mai trovato il minimo riscontro.

Come mai ha trovato riscontro un’altra congettura dei legami con i  servizi segreti del leader delle Brigate Rosse Mario Moretti, il quale tra l’altro è detenuto in regime di semilibertà dal giugno del 1981 e tale circostanza dovrebbe bastare e avanzare da sola a spazzare qualsiasi dubbio in una situazione normale in un paese normale che evidentemente non è il nostro.

Il libro di Bianconi ricostruisce quello che accadde nei 55 giorni tra i palazzi delle istituzioni e l’appartamento dove venne tenuto il presidente della Democrazia Cristiana. Punta l’attenzione sul partito della fermezza sul no a qualsiasi trattativa dove la parte del leone la fece il Partito comunista italiano che per lungo tempo dirà che le Br erano “sedicenti rosse” e il segretario Enrico Berlinguer parlerà di “metodi nazi-fascisti”. Il partito temeva la concorrenza del partito armato dentro il movimento operaio.

Del partito armato Aldo Moro prima di essere rapito aveva parlato a più riprese sia in pubblico sia in privato con i suoi figli che riferiscono: “Il concetto di partito armato per lui significava una forza reale nella vita del paese una forza incidente che aveva obiettivi determinati e che non si poteva in alcun modo sottovalutare e soprattutto era e diventava per questo un problema politico e non più strettamente un problema di polizia di ordine pubblico, giudiziario”.

Purtroppo per Moro, eccezion fatta per un gruppo di fedelissimi che si diedero da fare per salvargli la vita, la classe politica con il fronte della fermezza non solo fu di tutt’altra opinione, ma sostenne che il presidente della Dc “non era lui” nelle lettere dalla prigionia. Insomma Moro fu isolato. Lui invocava la ragion di stato per tornare a casa, ricordando che in altri paesi in casi analoghi c’era stata trattativa. La politica invece interpretava la ragion di stato nel modo esattamente opposto.

La moglie Eleonora Moro dirà : “Siamo prigionieri” con riferimento al palazzo che non ascoltava le parole accorate dei familiari.

Quello di Bianconi è uno dei pochi libri schierati contro la dietrologia alla quale hanno dato spazio anche le commissioni parlamentari, soprattutto quella della scorsa legislatura presieduta da Giuseppe Fioroni e animata da diversi esponenti del partito erede del Pci. Chi scrive queste poche righe per dare atto a Bianconi di aver fatto un lavoro onesto di ricostruzione è convinto che la maggior parte della dietrologia sul caso Moro nasca proprio da una circostanza unica. Moro fu rapito da un gruppo di comunisti mentre altri comunisti erano in maggioranza di governo. E dopo oltre 40 anni non se ne viene fuori (frank cimini)

“16 marzo 1978″ di Giovanni Bianconi. 223 pagine, Editori Laterza

 

No Expo condannati in Grecia, a rischio processo Milano

Sorpresa. I quattro anarchici greci imputati a Milano per devastazione e saccheggio in relazione agli incidenti del primo maggio 2015 per l’inaugurazione di Expo sono già stati processati ad Atene per quei fatti e condannati a 2 anni e 5 mesi. Questa mattina i difensori Mauro Straini e Eugenio Losco hanno chiesto il non luogo a procedere depositando la sentenza di Atene diventata definitiva. Il pm Piero Basilone ne ha preso atto e si è detto d’accordo nel non celebrare il processo per il principio del ‘ne bis in in idem’. I giudici della decima sezione penale del Tribunale decideranno il prossimo 28 marzo.

Ad Atene i giovani anarchici sono stati condannati per resistenza a pubblico ufficiale e per reati ravvisabili del codice greco dove non esiste l’imputazione di devastazione e saccheggio. I quattro imputati che hanno avuto nel loro paese la pena sospesa sono a piede libero perché la corte di Appello aveva respinto la richiesta milanese di arrestarli ed estradarli criticando fortemente l’impianto accusatorio e ricordando che non esiste la responsabilità collettiva ma solo quella personale e spiegando che non vi erano elementi sufficienti per rimandarli in Italia.

I giudici di Milano dovranno comunque occuparsi di un quinto imputato Massimiliano Re Cecconi. I difensori hanno chiesto che si torni all’udienza preliminare contestando la dichiarazione di irreperibilità per il giovane poi arrestato in Francia e estradato. Per i legali anche sulla base di quanto detto dai genitori il ragazzo era chiaramente reperibile a Tolosa dove studiava in una scuola di musica.

In attesa della decisione dei giudici e del processo a Re Cecconi si può dire che finora in relazione alla manifestazione del primo maggio per nessuno la procura è riuscita a ottenere la condanna per devastazione e saccheggio, reato per il quale è prevista la pena compresa tra 8 e 15 anni di reclusione. Ci sono state condanne ma solo per reati minori. E oggi la procura si è arresa davanti alle risultanze della giustizia greca. Insomma il primo maggio del 2015 è lontano molto lontano. Adesso per la procura ci sono altre priorità a livello di antagonismo sociale e politico. Innanzitutto il processo al comitato per la casa del Giambellino dove viene contestata l’associazione per delinquere anche se i pm sono i primi ad escludere che gli imputati abbiano guadagnato un solo euro dal presunto racket, molto presunto (frank cimini)

Confessare un reato via instagram

Su instagram ci si innamora, si cucina, si telefona, si diventa ricchi e adesso si confessano anche i reati. Protagonisti sono dei giovani indiani, tra i 19 e i 25 anni, che in un video postato su un profilo riconducibile a uno di loro si vantano in lingua punjabi di avere preso parte a una rissa per la quale erano stati arrestati dei loro amici pochi giorni prima,  prendono in giro i carabinieri e  annunciano di volersi vendicare per i compagni finiti in carcere. Per queste loro esternazioni digitali, il gip di Cremona li ha puniti con la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per due volte al giorno per il reato di rissa aggravata. I tre, che vivono tra Lodi e Piacenza, erano stati sentiti come testimoni dai carabinieri dopo l’arresto di 4 partecipanti a una rissa scoppiata il 22 febbraio scorso tra due gruppi ‘rivali’ di giovani sikh che si erano dati appuntamento, sempre attraverso i social network, per scontrarsi davanti a centinaia di studenti in uscita da alcune scuole vicine e di fronte alla caserma dei carabinieri di Cremona. Nelle immagini postate su Instagram, si sono definiti  “delinquenti” e hanno minacciato di essere in possesso di una pistola che avrebbero potuto utilizzare. Dopo avere visto il video, i carabinieri li hanno identificati e hanno perquisito le loro abitazioni trovando in quella di uno dei ragazzi una pistola  Beretta comprensiva di caricatore a salve . Nel provvedimento cautelare, il gip sottolinea che nel video gli indagati hanno manifestato, oltre alla volontà di compiere altre aggressioni, anche “un’indole particolarmente aggressiva e spavalda facendosi scherno delle forze dell’ordine”. In fondo,  i processi sui social si celebrano già da un sacco di tempo. (manuela d’alessandro)

Il legittimo Far West

Evidentemente per il nostro legislatore non solo il vituperato regime fascista, che ai tempi fece scrivere al giurista Alfredo Rocco gli articoli 52 e 55 del Codice penale, ma anche il successivo governo Berlusconi, che già intervenne nel 2005, sono stati troppo ‘tolleranti’ con i malviventi che attentano alla proprietà privata.

E’ in corso di approvazione infatti un aggiornamento delle legge sulla legittima difesa che presenta alcune innovazioni che lasciano a dir poco perplessi. L’articolo 1 della nuova legge prevede che la proporzionalità tra offesa e difesa, richiesta dall’articolo 52 del codice penale, debba essere ritenuta sempre sussistente nel caso di uso di arma legittimamente detenuta per difendere i beni propri o altrui dal, si legge, ‘pericolo di un’aggressione’, il che significa che per proteggere una ‘cosa’ si potrà legittimamente uccidere anche in assenza di aggressione alcuna. Non bastasse, il successivo articolo 2 stabilisce che anche qualora difettasse detta proporzione, chi eccede colposamente non verrà comunque più punito secondo quanto oggi previsto dall’articolo 55 del codice penale se ha agito, si legge, in un momento di ‘particolare turbamento’. Infine, dopo avere ulteriormente inasprito le pene per i delitti di violazione di domicilio, furto, rapina, la riforma si spinge anche a stabilire che in caso di assoluzione in sede penale, sarà inibito alla vittima della eccessiva reazione, anche qualsivoglia risarcimento in sede civile.

Come sempre toccherà alla sensibilità dei singoli magistrati interpretare in modo corretto concetti di rara evanescenza giuridica quali ‘pericolo’ e ‘turbamento’ per evitare che il diritto di proprietà, certamente tutelato dalla nostra Costituzione, possa prevalere su quello della vita e all’incolumità delle persone, tra le quali, con buona pace di quanto oggi pare vada di moda affermare, rientrano pur sempre anche i ‘delinquenti’, pena altrimenti la sostituzione della legge degli uomini moderni con quella della giungla o del taglione che dir si voglia.

Non troppi anni fa, qualcuno forse lo ricorderà, un gioielliere romano, tale Bruno Tabocchini, uccise il centrocampista della Lazio Luciano Re Cecconi appena costui aveva messo piede nel suo negozio fingendosi un rapinatore. Una volta appurato che il morto era disarmato, il gioielliere fu arrestato e rapidamente portato a processo con l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa perché non era lecito sparare per salvare il borsellino, ma occorreva dimostrare il rischio percepito all’incolumità personale. Il gioielliere venne assolto ma quel che è certo è che oggi quel processo non si potrebbe neppure iniziare. Quello che stupisce è come l’attuale governo si sia distinto in questi pochi mesi in una serie di interventi legislativi sulla giustizia che paiono creare un finale paradosso che ovviamente in quanto tale non deve essere preso alla lettera ma che si ritiene non discorsasi troppo dalla realtà. Con il nuovo sistema potrebbe anche accadere che: 1) Tizio travestito sia pagato dallo Stato per fare la spia contro Caio che lavora nell’amministrazione pubblica 2) Caio venga condannato a parecchi anni di reclusione per avere accettato un biglietto del bus gratis da quel Tizio 3) dopo 25 anni di interminabili processi, Caio venga sbattuto in galera senza passare dal via anche se ormai è decrepito ma 4) se sempre Caio, mentre lo portano dentro, spara alla schiena di Sempronio che cercava di rubargli quel biglietto del bus e lo uccide come un cane, lo Stato non solo lo punisce ma gli paga anche l’avvocato.

Il mio, lo ripeto, è un paradosso ma non vorrei che alcune leggi dello Stato siano la conseguenza del fatto che nonostante in Italia ci siano più di 1800 detenuti all’ergastolo ostativo, si continui ancora da più parti a sostenere che nel nostro Paese ‘i delinquenti la fanno franca’ perché non ci sarebbe la certezza della pena. Me lo chiedo perché non credo, e i numeri non paiono smentirmi, che oggi in Italia si commettano molti più delitti di 10 anni fa, E allora, perché?

avvocato Davide Steccanella

Il giudice che fa le camere di consiglio via skype

Il giudice penale che ha introdotto le udienze via Skype si chiama Pierpaolo Beluzzi, ha 54 anni, lavora al Tribunale di Cremona e tiene un corso all’Università Cattolica di Milano che definisce “sulla creatività della giustizia digitale”. Molti  avvocati lo adorano, soprattutto quelli che risparmiano ore di spostamenti da una citta’ all’altra per sedersi pochi secondi in un’aula di Tribunale, ma i vantaggi in termini di tempo del suo modo di lavorare sono per tutti – testimoni, interpreti, consulenti – perché riguardano tutte le fasi del procedimento.

“Abbiamo utilizzato la tecnologia in oltre duecento processi negli ultimi anni – racconta il magistrato – il presupposto è che tutte le parti siano d’accordo nel farlo. I casi che dimostrano quanto sia utile sono diversi. Con Skype ci siamo collegati col testimone che non aveva i soldi per pagare il viaggio e venire a deporre; abbiamo sentito persone truffate che risiedevano in diverse città italiane, e anche all’estero, a cui sarebbe costato tempo e denaro spostarsi a Cremona per rendere dichiarazioni che hanno potuto fare da casa. E ancora, penso a quei medici che hanno potuto intervenire in udienza senza lasciare il reparto dove lavorano o ai consulenti che vivono altrove e hanno potuto esporre i loro studi senza muoversi dall’ufficio”. Questo sistema, sostiene Beluzzi, ha enormi vantaggi anche perché le parti sembrano essere “più disciplinate nell’ascoltare gli interventi altrui e tutto si svolge in modo più proficuo”. Il principio cardine nel nostro ordinamento, l’oralita’ del processo, viene rispettato, assicura il giudice, avvertendo però che nei casi più complessi non si può procedere con questo sistema. Una consapevolezza che hanno anche i legali: “Mi sono sorpreso tantissimo e positivamente quando il giudice mi ha detto che, se fossi stato d’accordo, avrei potuto evitare il viaggio da Milano a Cremona per una camera di consiglio su un’opposizione a un’archiviazione – racconta l’avvocato Simone Gatto – Mi ha invitato a dargli il mio indirizzo e-mail di Skype e ci saremmo sentiti per l’udienza camerale. Resto però convinto che in alcuni processi, penso a quelli per omicidio o a casi di criminalità organizzata, il principio dell’oralità ‘tradizionale’ vada salvaguardato per garantire al massimo il libero convincimento dei magistrati e anche dei giudici popolari. Parliamo soprattutto di situazioni dove l’aspetto emotivo conta molto”. In questi casi, una smorfia del volto, che uno schermo può ‘mascherare’, a volte risulta decisiva nel contribuire a valutare quanto sia attendibile un testimone. (manuela d’alessandro)