giustiziami

Cronache e non solo dal Tribunale di Milano

NoTav, compressore rotto. “Terrorismo, atto di guerra”, pm chiede 9 anni e 6 mesi

I pm di Torino hanno chiesto la condanna a 9 anni e 6 mesi di carcere per 4 militanti NoTav arrestati nel dicembre scorso per un’azione contro il cantiere di Chiomonte in Val di Susa durante la quale a colpi di bottiglie molotov fu danneggiato un compressore. “Atto di guerra”. “Azione militare minuziosamente preparata” sono i titoli della requisitoria. L’iniziativa per i pm ebbe la finalità terroristica, con gravi danni all’immagine dell’Italia e dell’Unione Europea. Nella requisitoria non si è fatto cenno che la Ue non ha voluto costituirsi parte civile e che leggendo la nota della commissione il presidente della Corte d’assise commentò: “L’Unione Europea non sembra granchè interessata a questo processo”.

Della scelta da parte della Ue e della sua motivazione nessun giornale ha mai scritto. Evidentemente esiste un legame molto stretto (eufemismo) tra i media e la procura. Del resto i giornaloni sono controllati direttamente o indirettamente dalle banche molto interessate alla realizzazione dell’opera.

I pm Padalino e Rinaudo negano la possibilità di concessione delle attenuanti generiche “nonostante lo stato di incensuratezza degli imputati”. Fanno testo invece per l’accusa “gli altri carichi pendenti” oltre alla “personalità” e alla “pericolosità” degli stessi. La procura fa una piccola marcia indietro  sull’attentato alla vita delle persone, dal momento che chiede la condanna solo per l’attentato all’incolumità di operai e poliziotti. Di qui la richiesta di condanna a 9 anni e 6 mesi inferiore ad alcune previsioni della vigilia ancora più catastrofiche per gli imputati.

Ma stiamo parlando di una magistratura che agita un fantasma del passato per reprimere l’unico movimento radicato sul territorio, in una porzione sia pure piccola del paese. Ovviamente il treno ad alta velocità Torino-Lione era ed è un problema sociale, politico, culturale, di modello di sviluppo la cui risoluzione è stata delegata ai magistrati. Come accadde tanti anni fa in una situazione infinitamente più tragica. E così per fermare la protesta di un’intera valle si utilizza come una clava il codice penale. Come deterrente verso chiunque altro dovesse scendere in piazza per protestare. Ironia della sorte la richiesta di condanna per “terrorismo” arriva proprio nel momento in cui la realizzazione dell’opera viene messa in discussione da alcuni dei suoi grandi fautori a causa dei costi miliardari dei quali molti sembrano accorgersi solo ora. E tra questi spicca il senatore piddino Stefano Esposito, una sorta di Pecchioli del terzo millennio per la foga con la quale sollecita di seppellire in prigione i NoTav.

Lasciano il tempo che trovano le affermazioni dei pm in aula di oggi. “Qui non si processano le idee”, parole di Rinaudo, magistrato vicino a Fratelli d’Italia, sottotroncone di An. “La serva che ruba è ladra, la padrona è cleptomane” detto da Padalino, ex figiciotto. Insomma l’arco costituzionale (allargato ai neofascisti) è rappresentato tutto e bene. (frank cimini)

“Crimini contro l’ospitalità”, un libro spiega bene perché chiudere i Cie

“Non è possibile umanizzare una istituzione che porta con sé inscritta la violazione dell’umanità. I Cie vanno chiusi”. In 103 pagine, un po’ reportage dal centro di “accoglienza” di Ponte Galeria, un po’ saggio, Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, spiega perché i Centri di identificazione ed espulsione, isitituiti con una legge che reca il nome dell’attuale capo dello Stato, sono incostituzionali. Scrive la’utrice: “La porta blindata che si chiude sulla libertà dell’immigrato si chiude anche sulla nostra democrazia”.

Perché nei Cie vengono privati di libertà e dignità persone che nessun reato hanno commesso. La loro colpa è essere “clandestini”. “Gli stranieri temporaneamente privi di passaporto o carta di identità diventano illegali. Una contingenza burocratica è assurta così a proprietà costitutiva e dominante di un essere umano. Su questo passaggio illecito e contrario a ogni logica si è fondato il reato di clandestinità” scrive l’autrice. Continua a leggere

Arriva l’arresto ‘all’americana’ con la legge svuota – carceri.

Scena classica di un film americano: il poliziotto fa l’arresto, serra le manette e, rivolgendosi al sospettato, dice: “Hai diritto di non parlare, hai diritto a chiamare un avvocato” e via così, con un lungo elenco di avvertimenti. Ora, qualcosa di molto simile al ‘Miranda warning’, arriva anche in Italia.

L’articolo 293 del codice di procedura penale, ritoccato dalla legge ‘svuota – carceri’  in vigore dal 16 agosto, stabilisce che le forze dell’ordine debbano consegnare un provvedimento scritto in cui informano l’indagato di una sfilza di suoi diritti: alla nomina di un legale, ad avere un interprete, ad avvalersi della facoltà di non rispondere, ad accedere agli atti su cui si fonda il provvedimento, ad informare le autorità consolari e i familiari, ad accedere all’assistenza medica d’urgenza, a essere interrogato da un magistrato nei giorni successivi all’arresto, a impugnare il provvedimento. Tutte informazioni che, se non fosse possibile fornire con un foglio scritto, devono essere date oralmente per poi essere comunque trascritte in un provvedimento da notificare al pm e al gip. Prima della riforma, l’articolo 293 era molto più striminzito e prevedeva solo l’obbligo per chi eseguiva l’ordinanza di comunicare al sospettato la facoltà di nominare un difensore di fiducia. (manuela d’alessandro)

“La cella liscia”, un e – book racconta la tortura nelle nostre carceri

“La chiamano “liscia” perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché – appunto – esattamente di tortura si tratta”. 

Arianna Giunti, giornalista del gruppo L’Espresso, racconta questo abisso sconosciuto dove viene rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o è semplicemente colpito da una crisi di nervi, nell’appassionato e documentato e-book “La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane”, edito da Informant.

La tortura viene praticata in Italia in quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento delle carceri che ancora dispongono di una cella liscia nella quale i detenuti sono costretti anche a fare i bisogni sul pavimento e a convivere con  gli scarafaggi. Un giorno Carlo, recluso al Mammagialla di Viterbo per reati di droga, spiega al padre durante un colloquio cos’è la cella liscia. “Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano degli agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Ma tu, pur di non restare solo e impazzire, aspetti  quei momenti come una cosa bella”. Trasferito poi nel carcere di Monza, alla mamma una sera dice al telefono: “Non arriverò a compiere 30 anni”. Carlo morirà pochi giorni prima del suo compleanno per circostanze che il padre, viste le oscure cartelle cliniche del penitenziario, non è mai riuscito a chiarire.

Non c’è solo la quotidiana violazione dei diritti umani nelle mura carcerarie al centro del libro elettronico ma anche un’indagine, arricchita da storie, che fa emergere l’impossibile ritorno alla vita, e soprattutto al lavoro, fuori dalle sbarre. Chi decide di ricominciare si scontra con un ostacolo insormontabile: il certificato penale immacolato richiesto dai datori di lavoro. Marcello supera in modo brillante un colloquio per diventare promoter in una grande azienda di surgelati. Quando il direttore delle vendite gli chiede di fornirgli il certificato, si spegne il suo sorriso. Racconta una bugia (“Per me sarebbe un lavoro troppo impegnativo”) e se ne va. Nel capitolo “marchiati a fuoco” Giunti mette in fila altre storie  simili a questa, abissi umani che lacerano il cuore e ritraggono il carcere italiano come un inferno con divieto perenne di uscita.  (manuela d’alessandro)

Daccò portato in manette come una bestia all’udienza,
22 anni dopo Mani Pulite c’è ancora bisogno di questo?

Parliamo di Daccò per parlare di tutti quelli come lui che ogni giorno scorgiamo nei corridoi del Palazzo. Perché urta il cuore, la ragione e il principio della dignità umana sancito da ogni Costituzione democratica vedere un imputato che non ha nessuna possibilità né di fare del male ad altri né di fuggire essere trascinato in manette,  come una bestia,  a un’udienza in Tribunale. Pierangelo Daccò, imputato con Roberto Formigoni nella vicenda Maugeri e prima ancora nel processo sul crac del San Raffaele,  è un uomo ‘rottamato’ da una lunga detenzione (è in carcere dal 2011), con una condanna a dieci anni alle spalle e per il quale oggi la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio, ritenendolo  il tramite  tra la Fondazione Maugeri e Roberto Formigoni, in un dedalo di corruzione e favori  da cui sbuca l’immagine ormai storica dell’ex Governatore beato a bordo di uno yacht. Reati, se provati, terribili, che distruggono la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Ma Daccò non ha ucciso, non è un violento, è un uomo ormai anziano che sta pagando le sue colpe. Precisiamo: se viene portato in manette non è certo colpa degli agenti penitenziari, ma di un regolamento che forse andrebbe rivisto, reso flessibile rispetto ai singoli detenuti. Oggi ricorre l’anniversario di ‘Mani Pulite’, una stagione che è passata alla storia anche per le immagini in manette di alcuni ‘colletti bianchi’, consegnate al popolo assetato di catarsi. E’ ancora  di ‘sangue’ che abbiamo bisogno  22 anni anni dopo, anno ‘zero’ per la corruzione in Italia?  (manuela d’alessandro)