Questo post è stato letto 9504 volte.
Il 19 marzo del 1980 il Giudice Guido Galli viene assassinato vicino all’aula 208 della Università Statale di Milano da un commando di Prima Linea composto da Sergio Segio, Maurice Bignami, Franco Albesano e Michele Viscardi. Guido Galli aveva “ereditato” l’indagine sui documenti trovati nel 1978 nella base milanese di Via Negroli di Corrado Alunni, un ex brigatista che era passato all’area milanese della Autonomia cui era collegata Prima Linea, indagine che l’anno prima era costata la vita al Giudice Emilio Alessandrini, assassinato il 29 gennaio e sempre a Milano, da un commando composto da Sergio Segio e Marco Donat Cattin. Evidente dunque la vera ragione di questo barbaro omicidio che nulla aveva a che vedere con quanto “rivendicato” in quel successivo delirante comunicato sulla “magistratura riformista” che giustamente la famiglia Galli dirà poi pubblicamente “di non avere capito”. Lo Stato e la Magistratura ogni anno ne commemorano la sua figura da tutti, amici e colleghi, ricordata come quella di un insigne giurista nonché persona umanamente splendida, ma cosa fecero con quelle persone di quel commando “quello” Stato e “quella” Magistratura dopo quel tragico 19 marzo 1980 ? Eccettuato Sergio Segio, che seguirà un percorso comune di dissociazione e che sarà tra gli ultimi detenuti ad uscire dal carcere, il destino punitivo degli altri assassini di Galli poche volte viene ricordato nei giorni delle celebrazioni. Michele Viscardi, arrestato nello stesso anno dopo essere stato ferito in un conflitto a fuoco nel quale avevano perso la vita altri due funzionari dello Stato, sconterà una detenzione di pochissimi anni perché immediatamente “pentito” il giorno stesso del suo arresto. Condurrà egli stesso polizia e carabinieri in giro per l’Italia sulle tracce degli ex compagni che farà arrestare uno dopo l‘altro, facendo fare più di sei anni di carcere ad un vecchio ex partigiano di Bologna che non faceva male ad una mosca, reo di avergli prestato un appartamento dovedove rifugiarsi ferito insieme al di lui figlio che era appunto Maurice Bignami, che pure sconterà ben poco carcere in seguito da una riconversione religiosa. In sostanza quello che scontò la condanna più pesante ed in silenzio fu il vecchio Torquato Bignami. Il quarto uomo, Franco Albesano, era libero nonostante fosse stato in precedenza arrestato e condannato per la drammatica morte del giovane Crescenzio, bruciato vivo il 1 ottobre 1977 a Torino nel rogo del bar “Angelo azzurro” durante un corteo degli autonomi. Ma, si seppe poi, proprio in quei giorni Guido Galli era nel mirino anche del giovane autonomo milanese Marco Barbone che troverà pochi mesi dopo il modo di uccidere il giornalista del Corriere Walter Tobagi prima di essere arrestato ed immediatamente a sua volta “pentirsi” così godendo di una delle più clamorose “premialità” della storia giudiziaria, al punto da sollecitare successive polemiche “dietrologiche” da parte dei socialisti. In questo non troppo diverso era stato il destino giudiziario di Marco Donat Cattin che aveva ucciso il Giudice Alessandrini e che era stato fatto scappare a Parigi dall’allora Ministro Cossiga che aveva avvisato il padre Carlo, sodale di partito, del pentimento di Peci che aveva fatto il suo nome, ma poi Marco Donat Cattin morirà qualche anno dopo travolto sulla autostrada vicino a Verona mentre cercava di prestare soccorso ad alcuni feriti da un incidente. Lo Stato dunque, e come noto, “sconfisse il terrorismo” con la legge sui pentiti regalando una sorta di immunità a chi aveva attentato alla vita dei suoi servitori in cambio della delazione, fu una scelta precisa, dovuta probabilmente alla emergenza e forse non solo efficace ma anche strategicamente condivisibile. Mi chiedo però se “quello” Stato che fece quelle leggi e quella magistratura che ai tempi le applicò siano proprio i più adatti a commemorare oggi quelle vittime, ma è la stessa domanda che mi faccio ogni 9 maggio quel giorno della memoria scelto proprio in concomitanza con il ritrovamento del cadavere di un altro famoso servitore dello Stato, quello che aveva espressamente scritto ai familiari prima di morire che “quello” Stato non lo voleva neppure ai suoi funerali. (avvocato davide steccanella, autore di “Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata)